Sulle orme di Sigerico
La Via Francigena in Valdelsa senese secondo il diario di viaggio dell’Arcivescovo di Canterbury Sigeric, che nell’anno 990 inaugurò il pellegrinaggio lungo la celebre arteria, annotandone nel manoscritto, oggi conservato alla British Library di Londra, le 80 submansiones. Oggi la Francigena è una via costretta a fare i conti con la nuova urbanizzazione degli spazi rurali: percorrere questo tratto nel cuore geografico della Toscana, tra Siena e San Gimignano, mostra come un cammino vecchio più di mille anni provi ancora a integrarsi oggi con i paesaggi emergenti.
Dispiego il foglio di carta su cui ho annotato le submansiones di Sigerico: «XVI Burgenove», scrive l’Arcivescovo nel suo diario, giunto nei pressi di Siena. Si riferisce al sedicesimo giorno di viaggio da quando, dopo la visita papale, è ripartito da Roma in direzione Canterbury. Provo a tradurre la parola latina in un forzato “Borgonuovo”, ma ne so meno di prima. Intanto mi siedo sul ciglio della statale e prendo qualche riferimento. Lì a due passi, verso est, le torri illuminate della cinta muraria di Monteriggioni emergono nel buio della sera e l’argilla rossa del suolo calcareo si appiccica come colla sotto le scarpe.
«Il 4 febbraio del 1001 Ava, vedova di Ildebrando dei Lambardi di Staggia, fondò un monastero di famiglia nei pressi di Borgonuovo, submansio sulla via Francigena ricordata nel 990 nell’itinerario di Sigerico». Leggo l’informazione turistica nel cortile dell’Abbazia oltre la strada e ricollego gli antichi riferimenti ai luoghi di oggi. Sigerico, in arrivo da Siena, trovò ospitalità in questo (tuttora) minuscolo agglomerato di case che porta il nome di Abbadia Isola. Nel silenzio e nel buio, sotto la facciata scarna dell’abbazia, l’atmosfera è di quelle senza tempo, ma la luce del riflettore che illumina il cantiere nell’angolo del cortile mi costringe al risveglio. D’altra parte appena uscito dal cunicolo di mattoni grigi che conduce fuori dal borgo la vista si apre su un piccolo distributore di benzina, che a dispetto delle dimensioni sfoggia una rassegna di cartelloni pubblicitari da far invidia a un autogrill.
Ma ora che ho incontrato Sigerico non m’importa e proseguo deciso verso la mia seconda tappa.
«XVII Aelse », stavolta il latino è meno criptico e mi dà una direzione precisa. Elsa è il fiume oltre la collina, verso ovest. Un’auto mi sfreccia accanto mentre controllo gli appunti del diario dell’Arcivescovo di Canterbury e insieme allo spostamento d’aria sento tutto il peso dei mille anni che dividono le nostre epoche. Tuttavia, imboccato il sentiero in località Strove, a sorpresa recupero almeno mezzo secolo grazie a una minuscola pieve appoggiata sulla strada stretta. Ospizi e chiese erano le unità elementari di prima accoglienza dei pellegrini e, nei casi in cui non hanno generato ulteriori agglomerati, lasciano immaginare un paesaggio immutato nel tempo. Questo tratto di strada bianca scende lungo il declivio di terra rossa e pare disegnato con un pennello: la Francigena tra Abbadia Isola e Gracciano d’Elsa è un perfetto esempio di conservazione di un paesaggio storico e naturalistico, mentre non si può dire altrettanto in località Gracciano. Qui la Via si perde tra le case e il cemento dei marciapiedi. Incontro e perdo Sigerico continuamente e il sole cocente di questo anomalo ottobre comincia a darmi fastidio. Sull’incrocio fisso il cartello marrone con raffigurato il pellegrino, ne seguo la direzione con lo sguardo e finisco per incrociare il solaio di cemento di una palazzina in costruzione, proprio sulla strada, mentre il giovane manovale sopra il ponteggio mi squadra un po’ attonito. Pazienza, la via Francigena va presa così, tra nuovi paesaggi, a strappi, talvolta immaginata. Non potrebbe essere altrimenti e penso tra me che l’occasione è buona per vedere come le antiche memorie si integrano con i paesaggi emergenti.
Un bagno termale, un opificio dal mulino ancora in funzione, una fonte abbandonata, una pieve dell’anno Mille, lecceti, rotatorie, svincoli della tangenziale, trattori abbandonati e capannoni agricoli. Il pellegrino disegnato sui segnavia è goffo e me lo immagino come Sigerico, che da queste lande oltre il fiume Elsa camminava in direzione San Gimignano: «XVIII Sce Martin in Fosse», riporta nel resoconto del diciottesimo giorno di viaggio. Oggi la località citata porta il nome di Molino d’Aiano e per raggiungerla salgo e scendo per due colline. Una pausa di refrigerio e ho il tempo di parlare con la signora che gestisce una bottega di generi alimentari: «Non noti niente? Abbiamo appena sostituito gli ombrelloni con una tettoia di legno», dice soddisfatta. Ma sono concentrato sul DVD in vendita accanto alla cassa, La via Francigena in Valdelsa. Per un attimo penso addirittura di comprarlo. Chissà.
Il paesaggio rurale è ora dominio incontrastato dell’architettura religiosa, peraltro abbastanza trascurata. L’Abbazia di Coneo, dell’XIX secolo, ne è un esempio magnifico, sia della storia architettonica sia, appunto, della noncuranza nella manutenzione. Tra l’erba alta osservo il bucato steso, la casa annessa alla chiesa è abitata e una folata di vento rivela il vicino gregge belante che varca la strada asfaltata. In scia al pastore avrei di nuovo perso la strada se non avessi visto due turisti-pellegrini che, con bastone e scarponi, si infilano tra un cartello stradale e il giardino di una casa sulla curva a gomito. Molino d’Aiano si materializza sulla mia destra e, mentre immagino una macina e un torrente fresco e trasparente, leggo in stampatello nero sul pannello screpolato che quella che ho di fronte è una centrale dismessa di produzione elettrica da biogas. Edifici religiosi o monumenti storici non sono gli unici protagonisti nello stereotipato paesaggio “francigeno”: oggi, sul cammino di Sigerico, anche un ammasso di tubi di rame e cisterne di cemento racconta la storia del territorio.
Oltre il guado sul torrente Foci, un lussuoso b&b ha ereditato il toponimo di Molino mentre la salita si impenna verso nord in direzione della XIX tappa sigerichiana, «Sce Gemiane». Il profilo delle torri di San Gimignano mi ricorda quello di Monteriggioni e ripercorro idealmente i chilometri dell’itinerario. Seduto al tavolo di un osteria sulla strada butto l’occhio dentro al pozzo lì vicino, con ancora un secchio e una catena arrugginita per il prelievo dell’acqua. Mi viene sete e impugno il boccale di birra con l’effige di un frate trappista. Di nuovo mi fa pensare al Sigerico pellegrino, un compagno fittizio di cui non riesco a liberarmi. Per fortuna è la mia ultima submansio.
Lorenzo Pini
La foto n.1 è stata presa da http://www.flickr.com/photos/28087140@N08/