Il favoloso mondo di Yann Tiersen

Skyline, il settimo album dell’artista francese, conferma l’estro creativo, multiforme e dinamico di un musicista che si trasforma e incanta. (Foto: © Yann Tiersen)

Chi era abituato alle melodie malinconiche de Il favoloso mondo di Amélie è costretto a ricredersi se ha intenzione di ascoltare il nuovo album di Yann Tiersen.
La settima produzione del polistrumentista originario della Bretagna, Skyline, è un mix di suoni potenti, coinvolgenti, aggressivi, tra il rock e l’electro.
Yann, che suona da solo o con la sua band, crea i suoi brani accordando strumenti classici come il violino e il clarinetto, con strumenti rock come la batteria, il basso, la chitarra, armonizzando la musica elettronica dei sintetizzatori con le note fiabesche dello xilofono e, per finire, mescolando tutti i suoni a quelli della voce.
D’altra parte anche la formazione di Yann è mista: da un lato l’accademia musicale e lo studio del violino, dall’altro la musica nei festival, da ascoltare e da suonare con la rock band formata quando era solo un ragazzo.
Forse è anche grazie al sostrato musicale che lo caratterizza, che questo eclettico musicista mostra di sapere cosa vuol dire sperimentare e rinnovarsi. Creare per lui significa lasciarsi andare all’intuito, farsi trascinare dall’“anarchia musicale”, dalla miriade di suoni che sono a disposizione della percezione, pronti per essere trasformati in una maglia fitta di melodie ed emozioni.
Il suo nuovo album propone degli effetti acustici originali, tra la psichedelia e l’ipnotismo: i suoni si ripetono ad intensità crescente, trascinando l’ascoltatore in un vortice di sensazioni, piacevolmente sgradevoli, frastornanti, ma terribilmente nuove, innovative, uniche.
Ascoltando un brano come Monuments, il singolo che apre l’album, si entra in un’atmosfera onirica, si percepisce una sensazione quasi di disagio, convogliata dal ripetersi ritmico della batteria, mentre le voci distorte dei vocalist pronunciano le parole «all monuments of men, they’re sinking in vain. Tiny moments of mine, they’re floating in space».
The gutter comincia con le parole che Che Guevara pronunciò nel quartier generale dell’Onu nel dicembre del 1964, incitando i popoli oppressi dell’America Latina alla rivolta. Il pezzo continua modulando una cristallina voce femminile che dice: «Let’s dive in the gutter. Try to reach the sea. Let’s move to the living world». Questi brani sembrano essere una metafora dell’affannarsi quotidiano dell’uomo che, alienato sempre di più nei prodotti del suo lavoro, ha perso di vista l’importanza del Tempo e dello Spazio più autentici.
Diverso dai precedenti è un pezzo come The trial, che inizia con la delicatezza dello xilofono, per lasciare il posto all’incedere della chitarra ed esplode in un crescendo di voci che ripetono «someday my girl, in your mirror. Darling, you will face the trial» fino a spegnersi nel suono pungente dei synths: il tono romantico, quasi da ninna nanna, si è trasformato in soffice minaccia.
Exit 25 Block 20 sembra procedere in senso inverso: si apre con delle note cupe, simili a latrati di cani, che si convertono in suoni gioiosi, trascinanti, che evocano il sorriso di un folle o un girotondo frenetico di bambini.
Ogni brano di questo album è per l’ascoltatore un percorso, un invito all’esplorazione della propria interiorità, ma anche del mondo circostante: lo skyline è forse la linea di demarcazione, netta eppure impercettibile, che separa la terra della realtà esterna, dal cielo del nostro universo interiore.

Silvana Calcagno

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