
Un conforto agli incurabili
La testimonianza di Elvira Parravicini che ha fondato un hospice neonatale per confortare e, dove possibile, curare bambini con gravi patologie. (Foto: Flickr cc wallyg)
Come curare gli incurabili? Come capire quando non c’è più nulla da fare? Sono domande che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si è posto, imbattendosi in storie di bambini mai nati o che forse, per qualcuno, non sarebbero dovuti nascere. Per Elvira Parravicini, Associate Professor presso la “Terapia Intensiva Neonatale” alla Columbia University di New York, “c’è sempre qualcosa da fare”, come ha affermato recentemente in un suo intervento a Modena. Ma facciamo un passo indietro.
Il 26 ottobre 2011 le è stato consegnato a Modena il premio e lectio magistralis Enzo Piccinini, in memoria del coraggioso medico modenese e rivolto a “personalità del mondo della sanità e dell’educazione, che con il loro impegno hanno saputo generare realtà di accoglienza, cura, assistenza ed educazione e che possono essere di esempio per tutti”. Elvira dal 2006 fa parte del gruppo di medici che si occupa di diagnosi prenatali presso la Columbia University di New York, dove ha fondato il primo hospice per bambini neonati venuti al mondo troppo prematuri, affetti da sindromi letali o anomalie, che quasi sempre ne impediscono la sopravvivenza. «Il prendermi cura dei piccoli prematuri — ha affermato in un articolo pubblicato di recente su IlSussidiario.net — è sempre stato e continua ad essere un dramma, ogni volta. Nello stesso tempo, lavorando con piccoli pazienti tra la vita e la morte, faccio sempre un’esperienza di bellezza, sia che con la rianimazione riesca a salvare la vita, sia che mi debba confrontare con l’estremo limite umano che si chiama morte, perché c’è un significato anche lì». Ma come è nato l’hospice? «Non è partito da un progetto, da un’idea, — ha affermato al ritiro del premio — ma praticamente mi è stato proposto dalla realtà stessa.
Un certo giorno, nel 2006, furono presentati due casi di due gravidanze, due mamme, che aspettavano ciascuna un bimbo con trisomia 18, una patologia incompatibile con la vita, o compatibile con una vita molto molto breve. E mi ricordo che ci fu un’accesa discussione rispetto al fatto che queste donne non avevano voluto abortire per cui c’era il problema della gestione dei loro bimbi alla nascita. Allora molto semplicemente alzai la mia mano e mi offrii di prendermi cura di loro alla nascita». È stato l’inizio del comfort care. Dal 2006 ad oggi ha seguito circa una cinquantina di bambini diagnosticati in condizioni terminali. Essere accolto, essere tenuto al caldo, essere idratato e nutrito sono i capisaldi del comfort care, che mira a dare conforto e pone al centro i bisogni primari di ogni bambino. Tante sono le vicende che le sono rimaste nel cuore, ma in particolare l’incontro con quei genitori appena sedicenni che hanno deciso di far nascere le loro gemelline siamesi di appena 29 settimane, unite al torace e con un unico cuore. Alla nascita, il padre le ha prese in braccio e lavate, con una cura e un amore da far commuovere i presenti, anche quelli che non capivano la loro decisione di metterle al mondo. «È stato un momento di bellezza — ha raccontato —, perché attraverso questo padre ho visto la vittoria dell’amore sulle diagnosi prenatali, al di sopra delle anomalie e della morte».
Erika Elleri