Spirito libero
Insolito Borneo. In un itinerario inusuale, animato solo dai moti dell’anima, una viaggiatrice rievoca con lo sguardo carico di sensazioni visive le suggestioni di una giornata di viaggio.
Le maestose palme da coccoQuella mattina avevo deciso che non mi sarei messa alla ricerca di qualcosa. Salì in macchina, con l’unico desiderio di scrollarmi di dosso quell’ansia interiore di sapere già cosa vedere di una terra sconosciuta. Senza nessuna meta, volevo lasciarmi andare al ritmo della vita. All’alba lasciai Kudat alle mie spalle e mi diressi verso la costa nord dell’isola. La strada lunga e stretta fendeva un’interminabile fila di palme da cocco che lambivano all’infinito un’estesa spiaggia di finissima sabbia. Lunghe fila di carretti di contadini intralciavano continuamente la corsa, e dal finestrino della macchina riuscivo a fatica a mettere a fuoco, tra le fronde tropicale, i frammenti turchesi del mare. Ero nel Sabah all’estremo nord del Borneo. Un angolo di mondo che ha stregato la fantasia di generazioni di persone attraverso i personaggi di Salgari.
La spiaggia di Pantai KalampunianJungla impenetrabile, pirati bellicosi e temibili cacciatori di teste avevano contribuito a rendere questo luogo ai limiti del rischio; eppure sentivo che mi avrebbe offerto delle nuove opportunità. Certo, oggettivamente il pericolo c’era, ma con un po’ di audacia accantonai le idee preconcette dalla coscienza, lasciando il posto solo all’osservazione della realtà che, fino ad ora, non mi era parsa così minacciosa. La strada scorreva e dalla mia dodge rovente e stabile come una corriera, si udivano i sussurri del fitto intrico della foresta. Il sole alto nel cielo era già nel suo stato di grazia. Attimo per attimo mi impregnavo di un colore, di un odore, di un senso di quella terra: ogni fatto più insignificante assumeva un peso di straordinaria novità. In fondo ai margini della strada, sotto l’ombra contorta degli alberi, una bancarella di frutta mi tentò ad una sosta. Notai con sorpresa che il venditore di rambutan (frutti esotici), un ragazzetto vestito all’europea, giocava con un piccolo animaletto, grande quanto il palmo di una mano. In silenzio, seguì con lo sguardo e con qualche scatto fotografico quel tenero rapporto. Poi ripresi la mia dodge e il mio viaggio.
Le raccoglitrici di conchiglieNascosto dietro le quinte degli alberi, il mare iniziò a rivelarsi lentamente. Poi, inaspettatamente la strada asfaltata finì. Guidata dall’istinto abbandonai la macchina e mi avventurai a piedi per una stradina bianca e polverosa. Una targa di legno mi indicò: Pantai Kalampunian. Cosa era? Lo scoprì più avanti. Quando gli alberi si diradarono, mi apparve uno scenario travolgente. Uno spazio infinito di sola sabbia bianca, che scivolava lungo il bordo di un mare turchese e, a mano a mano, si colorava di un blu intenso e brillante. Un vero eden, che spalanca la sua porta sul mar Cinese, che indugia verso il mar Sulu in un eterno abbraccio. Era impossibile percepirne i limiti fluttuanti con il cielo. Rimasi per qualche secondo rapita dalla luminosità celeste. Poi iniziò la mia corsa a perdifiato verso quel mare caldo; fu la forza delle gambe a slegare il mio spirito libero. Mi lasciai accarezzare da quelle onde chete, immaginando il mondo magico dei suoi fondali, all’immenso serbatoio di vita conservato nelle sue profondità; per alcuni istanti avevo persino immaginato di intravedere qualche relitto lasciato dalle continue scorribande dei pirati che avevano attraversato la pace di quei mari. Camminai a lungo in compagnia del rumore dei miei passi lenti sulla sabbia, guardandoli dissolvere dall’eterno movimento delle onde. Attorno a me, la forza e il mistero della natura mi fecero sentire parte integrante del suo respiro: avrei voluto legarmi ad esso in modo irreversibile. Nello spazio circostante, dove lo sguardo non aveva appigli su cui aggrapparsi, vedevo la mia vita scivolare via.
La palafitta chiamata “longhouse”Dentro quel piccolo mondo puro cancellai dalla memoria: bisogni, convenzioni, pregiudizi: volevo toccare l’essenza delle cose.
In quel paesaggio avevo letto la prima risposta di quel viaggio senza progetto: il luogo dove potersi riscoprire. Sensazione di libertà e solitudine: lì, oltre a me, solo l’incanto della natura. Il caldo opprimente mi costrinse a lasciare la spiaggia deserta e mi addentrai nell’intricata vegetazione alla ricerca di una zona d’ombra. Solo allora mi arrivarono gli echi di voci lontane. Nascoste nel fitto fogliame, delle bambine parlavano tra loro. Trattenni il respiro per non fare rumore, ma la mia presenza non turbò la loro vita tranquilla, forse perché abituate al passaggio di qualche intrepido viaggiatore, disposto ad avventurarsi lungo i sentieri della foresta. I loro sguardi dolci e i sorrisi accattivanti confermarono la mia ipotesi; le bambine barattavano conchiglie: meraviglie naturali in cambio di qualsiasi cosa. Purtroppo non avevo nulla da offrire e quegli occhi grandi e profondi lo intuirono in fretta. Avvolte nei loro abiti consunti dal tempo si muovevano con grazia felpata e la loro fotogenia era ipnotizzante. Iniziò il nostro dialogo, fatto di tanti sorrisi e inchini con la testa. Bambini di tutte le età accorsero curiosi, mentre le donne rimasero in disparte, affaccendate dai lavori quotidiani. Dalla radura polverosa si animò il piccolo villaggio rurale: etnie misteriose organizzate in clan convivevano in perfetta simbiosi con la natura.
Iniziarono a cadere le prime gocce d’acqua e una grande nuvola grigia fece presagire l’arrivo di un temporale. Una bambina mi invitò a mettermi al riparo, indicandomi la grande palafitta di bambù conficcata nella terra. Entrai. Investita dalla penombra del lungo corridoio e dal clima ventilato, l’interno donava un piacevole refrigerio all’afa tropicale. Alcune donne sedute sulla piattaforma di legno erano impegnate ad intrecciare lunghe fila di perline colorate, oggetti ornamentali, che forse sarebbero serviti ad adornare degli abiti tradizionali. Mi lasciai osservare in silenzio e il mio sguardo mai stanco era ammaliato da quei gesti lenti e precisi. La bambina mi offrì un bicchierino di tè fumante, come segno di benvenuto nella grande famiglia, composta da tante generazioni. Nel ventre fecondo della “longhouse” si svolgeva la vita comunitaria della tribù, si stabilivano le relazioni e i matrimoni, tra riti e iniziazioni. Con gli occhi pieni di gioia, scoprì l’orgoglioso brulicare della vita semplice e la bellezza dei luoghi che raccontano la storia degli uomini. Intense emozioni che penetrano dritte nell’anima. Sulla via del ritorno, l’aria profumata di sandalo bagnato mi svegliò dal torpore di una lunga avventura. Dalla mia dodge guardai scendere la luce dorata del tramonto.
Alessandra Mannarella