Quando le cose crollano
La storia di un eroe tragico, lo scontro di due culture: la vita di un guerriero africano come il ciclo della Storia.
Il crollo
«Le cose crollano; il centro non può reggere»: queste le parole di W.B. Yeats che lo scrittore nigeriano Chinua Achebe prende in prestito per intitolare il suo Things Fall Apart, 1958. Il crollo è la storia di Okonkwo, eroe tragico che, ironicamente, ottiene l’esatto opposto di tutto ciò per cui ha lottato; ma è anche la storia dell’incontro-scontro tra due culture che porta allo sfacelo della società africana preesistente all’invasione cristiana.
Lungo il corso del Niger l’autore ci conduce ad Umofia: nove villaggi legati alle tradizioni degli Igbo – popolo africano – che vivono di agricoltura e commercio, seguendo i cicli delle stagioni rispettandone i ritmi. Quella descritta è una società guidata dai valori ancestrali, fortemente strutturata e gerarchica (i vecchi primeggiano sui giovani, gli uomini sulle donne) e dove il successo è l’unico biglietto da visita. Okonkwo, il miglior guerriero di tutti i villaggi, incarna alla perfezione i valori della sua tribù. Eppure non finirà troppo bene. E il motivo risiede proprio nella sua incapacità di comprendere che le cose crollano, cambiano, la storia è mutevole, avanza, si ripete, prosegue… non si può sperare che resti immutata.
Ansioso di distinguersi dal padre noto per la sua indolenza – flauto, chiacchiere e debiti, le sue principali attività – Okonkwo cresce valoroso e stimato, ma forse troppo inflessibile. Incapace di amare o quantomeno di dimostrare amore. Successo: la sola meta. Forza e rabbia i suoi mezzi. Dimostrare virilità e coraggio viene prima di tutto, persino degli affetti e della pietà umana. Ma la sua coerenza ferrea fino all’eccesso lo porterà, paradossalmente, ad esser condannato a sette anni di esilio e ad una tragica serie di disgrazie irreversibili.
Al suo ritorno, il grande guerriero scopre l’avvento dell’uomo bianco e del cristianesimo. La cultura occidentale s’insinua in quella africana. Quella che Achebe evoca con uno stile teso a riprodurre il ritmo della lingua orale, che altera l’inglese giocando con la sintassi, che parla spesso per proverbi e racconti, che fa abbondante uso di termini igbo; con la fisicità prepotente dei corpi guerrieri o delle danze; con la musicalità di tamburi, flauti e canti; con i continui riferimenti al mondo animale e vegetale…
Poi, l’inevitabile scontro di neri contro bianchi. Di bene contro male? Ma dove starebbero, allora, bene e male? Il secondo, sicuramente, nelle intenzioni degli uni, nell’imposizione di religione e prassi commerciale – che stravolgono totalmente stile e ritmo di vita di Umofia, sconvolgendo coscienza d’identità e dignità dei suoi abitanti; ma anche negli altri, nell’atteggiamento cieco e ostinato di Okonkwo che, indignato dall’abbandono dei valori ancestrali e, peggio, dalla conversione del figlio, fa di tutto per ristabilire il vecchio ordine delle cose, incapace di accettare il minimo cambiamento di una società nella quale aveva imparato a primeggiare. Ecco allora il crollo psicologico dell’eroe tragico di fronte al rapido degradarsi del mondo che conosceva.
In un romanzo che narra l’altra faccia del colonialismo inglese, Achebe non si limita ad accusare le evidente nefandezze dei colonizzatori: sviscera la struttura solida ma contraddittoria di una comunità africana che affaccia sul Niger.
(Chinua Achebe, “Il crollo”, Jaca Book- Edizioni e/o, 2002, € 14,00)
Silvia Blakely