Pirateria marittima moderna: un fenomeno in crescita

Il destino dei marò italiani trattenuti dalle autorità indiane appare ancora incerto ed è diventato causa di tensioni internazionali tra l’India ed il nostro Paese. In attesa degli sviluppi di questa intricata vicenda, scopriamo le cause della presenza militare a bordo di navi da trasporto private. (Foto: Flickr cc earlg)

Quando si pensa alla figura del pirata, l’immagine che torna subito alla mente è quella del capitano con la gamba di legno intento a sbraitare contro il suo equipaggio o a trincare rum nel frenetico porto di Tortruga. Ma la pirateria marittima, contrariamente a quanto molti di noi sono soliti pensare e come evidenziato dalla vicenda dei marò italiani trattenuti in India, non si è estinta con l’invenzione del motore a combustione, si è piuttosto trasformata.
L’utilizzo di soldati come deterrente dagli attacchi di pirateria è recente per l’Italia. L’approvazione di tale misura è avvenuta nel luglio dello scorso anno in occasione del rifinanziamento delle missioni militari all’estero. Il perché di tale decisione è presto detto: gli attacchi alle navi commerciali, specialmente quelle che trasportano risorse strategiche – petrolio in primis –, continuano ad aumentare.
Le zone maggiormente colpite dal fenomeno pirateria sono quelle del Corno d’Africa e dell’Oceano Indiano del nord, un’area profondamente instabile ed altrettanto povera attraverso la quale transitano buona parte delle imbarcazioni commerciali mondiali. Il numero di navi catturate nel 2010 si aggira intorno a quota cinquanta, con danni economici che superano i dieci miliardi di dollari. Ma queste cifre potrebbero addirittura lievitare se si considera che in molti casi gli attacchi non vengono denunciati dalle compagnie marittime, con lo scopo di evitare coinvolgimenti giudiziari e aumenti dei costi assicurativi.
Per combattere l’ascesa del fenomeno, nel 2008 l’Unione Europea ha dato vita ad un’azione navale comunitaria, la prima della sua storia. Tuttavia, missioni internazionali di questo genere presentano difficoltà di coordinamento e spesso si trovano ad aver a che fare con ostacoli di tipo giuridico. Si va dall’impossibilità di proseguire gli inseguimenti nel passaggio da acque internazionali ad acque territoriali, alla necessità di autorizzazioni preventive per l’abbordaggio di imbarcazioni che battono bandiera diversa da quella della nave abbordante. In alcuni casi si assiste addirittura ad arresti in flagranza di reato che si traducono in rilasci pressoché immediati. Il contrasto delle operazioni criminali non può dunque avvenire in violazione del codice della navigazione e questo, in mancanza di accordi con le autorità locali, finisce per frenare l’attività di repressione.
Ma chi sono i pirati del nuovo millennio? Si possono distinguere due categorie. La prima è costituita da ex pescatori – principalmente somali, indiani o filippini – che hanno intrapreso l’attività piratesca spinti spesso dalla fame. Già in possesso delle imbarcazioni e capaci di spacciarsi per onesti pescatori, questi pirati improvvisati attaccano spesso al solo scopo di rubare tutto ciò che può essere trasportato. Questi ristretti manipoli di uomini, infatti, non hanno i mezzi per operazioni di alto profilo che sono invece ad appannaggio della seconda categoria, quella del crimine organizzato.
Questo secondo gruppo, ben diverso dal precedente, fa capo ad organizzazioni di dimensioni più ampie e con interessi che vanno al di là della sola pirateria. Ben organizzate e adeguatamente armate, queste bande hanno spesso sul proprio libro paga rappresentanti delle autorità costiere che favoriscono il protrarsi delle loro scorribande. Tale supporto diventa quasi indispensabile soprattutto per gli attacchi più complessi, quelli che comportano il sequestro di intere navi, sia che avvenga per impossessarsi dell’intero carico sia per il rapimento del personale di bordo in vista di una richiesta di riscatto.

Alessandro Turco

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