Orso d’Oro ai Taviani per Cesare deve morire: quando il teatro entra in carcere

I fratelli Taviani vincono l’Orso d’Oro alla Berlinale con Cesare deve morire, storia di un gruppo di ergastolani detenuti nel carcere di massima sicurezza di Rebibbia, per i quali la messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare diventa occasione di riscatto. (Foto: Ansa/Epa/Britta Pedersen)

Prodotto dalla Sacher Film di Nanni Moretti, che ha da sempre saputo fiutare la qualità di certo cinema italiano, Cesare deve morire dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani ha ricevuto l’Orso d’Oro alla Berlinale. Era dal 1991 che un film italiano non riceveva il prestigioso riconoscimento e da ben quattro anni nessun italiano veniva invitato in concorso. Cesare deve morire è la storia, tra fiction e documentario, di un gruppo di detenuti del carcere romano di Rebibbia che mette in scena il Giulio Cesare di William Shakespeare. Il film segue la preparazione del laboratorio teatrale con i detenuti, quindi il casting, la scelta dei ruoli, i primi approcci al copione, le prove, gli errori e la progressiva conoscenza di un testo che parla dei giochi di potere dell’antica Roma attraverso gli ideali dell’onore e del sacrificio di un gruppo di congiurati che pensano di fare il bene della Repubblica tramando la morte di Cesare.
Ed è qui che i detenuti ritrovano punti di contatto con la loro vicenda personale e collettiva, è qui cheogni parola comincia a risuonare come verità assoluta. Il teatro diventa infatti metafora della condizione di chi, come questi reclusi, condannati a vita per reati di mafia, camorra ecc., vuole assumersi la propria responsabilità, fosse anche quella di aver sbagliato. La novità straniante ed emozionante del film, a detta anche dei registi, è dunque la completa e profonda identificazione degli attori con i ruoli interpretati, come emerge anzitutto dal complesso lavoro di traduzione del testo shakespeariano nei dialetti degli interpreti, nonché nella impossibilità da parte dello spettatore di separare la vicenda rappresentata dalle storie dei detenuti, se non quando la finzione scenica viene per un attimo sospesa svelando così le sue finalità metateatrali. Gli attori recitano le parole sul copione, ma i loro occhi sono quelli di chi quelle emozioni prima di tutto le sente sul proprio corpo. I fratelli Taviani sono stati bravissimi a coglierle nei volti e negli sguardi dei loro attori con l’intensità dei loro primi piani in bianco e nero. I due registi sul palco hanno ringraziato tutti gli attori, osservando che «avvicinarsi all’arte li ha fatti sentire liberi, ma ha anche trasformato la loro cella in una prigione di solitudine. Questo premio ci ricorda che anche un detenuto su cui sovrasta una pena a vita è, e resta, un uomo».

Carmela Bafumi

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