Marco Simoncelli: sul podio più alto

È morto sulla pista di Sepang, prima di riuscire a realizzare il suo sogno: arrivare primo nella MotoGp. Cosa rimane di un campione: disperazione o speranza?

Quello che è successo sulla pista di Sepang ha lasciato tutti senza fiato, tanto che è difficile raccontarlo senza sentirsi scossi o senza chiedersi il perché. Marco Simoncelli, detto “SuperSic”, era solo un ragazzo. Aveva 24 anni e una grande passione per le moto, che forse lo avrebbe portato a salire sul gradino più alto del podio anche nella MotoGp. Questo era il suo sogno. Veniva da Coriano, un piccolo paese sulle colline riminesi, dove il profumo della piada si mescola all’odore della benzina. Era in quarta posizione, durante il secondo giro di gara e, ad un certo punto, ha piegato forse troppo la Honda, perdendo aderenza e scivolando via all’interno della curva. Se fosse scivolato all’esterno, forse si sarebbe salvato. Questo è il rammarico di molti. Anche del padre Paolo. In quel momento, sopraggiungevano Colin Edwards con la Yamaha e Valentino Rossi con la Ducati, che non hanno potuto evitarlo. Il destino ha voluto che fosse proprio il suo amico Vale a transitare dopo di lui.

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La morte di Marco non può che farci riflettere sui limiti e i rischi del mondo della velocità, essendo solo l’ultimo di una serie di lutti. Tra questi ricordiamo la recente scomparsa del pilota di Indy Car Dan Wheldon, per un incidente sull’ovale di Las Vegas, oppure quella del giapponese Shoya Tomizawa nel Gp di San Marino a Misano, con una dinamica simile a quella di Simoncelli. In fondo, la passione per la velocità fa sempre i conti con il rischio di morire. Probabilmente è proprio questo oltrepassare il limite che affascina gli spettatori.
Il giorno delle esequie di Marco, ad attendere il feretro, trasportato in spalla dai suoi amici più stretti, erano presenti più di 15 mila persone, un vero e proprio popolo commosso. Numerosi i piloti presenti, da Rossi a Dovizioso, da Lorenzo a Pasini.
Ma lo sorpresa più grande è stata la famiglia, compresa la fidanzata Kate. Hanno affrontato quel dramma con la certezza che lui era in buone mani. Una testimonianza grande, dunque, di come la disperazione possa lasciare il passo alla speranza di un destino buono.
A celebrare la messa c’era il vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi, che ha provato a rispondere alla domanda che in questi frangenti, chi più o chi meno, si pone: «Dove stava Gesù in quell’istante fatale in cui il corpo di Marco ha cessato di vivere? Stava lì, pronto per impedire che Marco cadesse nel baratro del niente, per dargli un passaggio alla volta del cielo». E poi ha continuato: «A noi addolora non riuscire a vederti, ma ci dà pace e tanta gioia la speranza di saperci inquadrati da te, dal podio più alto che ci sia».
Cosa rimane di questo giovane pilota? Cos’ha affascinato così tante persone? La sua semplicità, la sua schiettezza, o forse il suo coraggio? Marco, infatti, non aveva paura di morire. Cosa gli abbia dato tanto coraggio non è dato saperlo. Forse il suo amore appassionato verso ciò che doveva vivere: la famiglia, la fidanzata, la moto, gli amici. In fondo, è proprio questa la libertà che desideriamo tutti.

Erika Elleri

Foto: http://www.flickr.com/photos/imagenation_photography/6059293139/

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