L’ultimo testimone

Giornata di pioggia.
Che schifo.
La solita, vecchia, pioggia grigia in una giornata di inverno-primavera-estate-autunno.
Un uomo, seduto sulla panchina. Occhi stanchi, pesanti, grigi, come solo il grigio può essere. Capelli arruffati, unti, neri, come solo il nero può essere.
Una vecchia giacca sgualcita, che tenta di coprire una lurida maglia rossa, come solo il rosso può essere.
Tutto in lui sembra esprimere la lentezza. Muove una mano, una vecchia mano da quarantenne, raggrinzita come una banconota.
Prende delle sigarette, con una lentezza grigia come la giornata. Se la accende con un accendino, verde.
Inspira; espira. Inspira; espira. Il ritmo è lento, come un orologio che si sta lentamente scaricando.
Le macchine passano, con dentro tante vite tante morti tante storie.
Nascoste, in un guscio.
Il pullman si ferma alla nostra fermata. Si aprono le porte veloci meccaniche precise. Il lezzo di uomo e di sporco invade me e l’uomo lento.
La gente scende veloce meccanica banale, ridendo piangendo vivendo morendo.
Si alza.
Butta la sigaretta per terra.
Non si fuma sui pullman, è la legge.
Salgo, e sale anche lui, lento.
Le porte si chiudono ci rinchiudono ammassati.
Ma lui non osserva.
Sta fermo, in piedi, senza lamentarsi di non essere seduto.
Le porte si chiudono veloci meccaniche banali.
Il pullman si muove. Le auto e le vite e le morti e le storie sfrecciano a un palmo dal nostro guscio.
Lui tira fuori un oggetto, un libro. Lento.
“Poesie”. Nessun autore. Nessuna edizione. Solamente “Poesie”.
Il pullman sferraglia, lui legge.
La gente parla ride si incazza, lui legge.
Poco a poco qualcuno si accorge di lui; massaie operai ragazzi immigrati uomini d’affari anziani si umiliano di loro stessi. Per un attimo. Poi ritornano ai loro vaghi pensieri.
Lui legge.
La mia fermata. No, non voglio scendere. Voglio scendere dove scende lui. Il demone della curiosità oramai mi ha preso con sé.
Il pullman si ferma. Le porte si aprono veloci meccaniche banali.
Alcuni lo evitano, è solo un lurido sporco barbone rubasoldi ubriaco di merda bambina non lo toccare non salutarlo ti contagia.
Alcuni scendono; altri salgono; nessuno si ferma. Lui sì, lui rimane lì a leggere.
Le porte si chiudono veloci meccaniche banali.
Lui legge.
Gli unici movimenti percepibili sono le pupille e le mani, raggrinzite come banconote.
Gli occhi scoprono, pensano, ragionano, riflettono sulle parole; le mani girano le pagine, una ad una, lentamente.
Un’altra volta la danza delle porte, sale e scende gente meccanica, ma forse un po’ di meno. Siamo in periferia.
La gente guardandolo mormora mangia insulti veloci, pugnalate; lui legge.
Penso: chissà che gran bel libro deve essere, per leggerlo così.
Arriviamo al capolinea; siamo solo io, lui l’autista.
Finalmente, scende dal pullman.
La pioggia scende.
Non ha un ombrello.
Lo seguo.
Cammina, o si muove, per i palazzoni grigi, lento.
Si muove verso un cimitero, grigio, soffocato.
Mi chiedo: cosa vorrà fare?
Lui entra dentro.
Passa tra le pietre grigie.
Improvvisamente si ferma, veloce.
Si inchina, con il libro sottobraccio, lento.
“Poesie”.
Lo posa per terra, di fianco ad una tomba.
La pioggia si posa sul libro.
Lo apre.
Il vento sfoglia le sue pagine, lentamente.
Vuote.
Bianche.
Come solo il bianco può essere.

Umberto Annone

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