L’Italia delle piccole imprese e lo spettro dei fallimenti
Il numero dei fallimenti è in aumento nel nostro Paese. Anche in presenza di una legislazione meno penalizzante per il “fallito” rispetto al passato, le procedure concorsuali rimangono una minaccia concreta, soprattutto per le piccole imprese.
Nel secondo trimestre del 2011 vi è stata una crescita dei fallimenti del 13,1% rispetto allo stesso periodo del 2010, con l’apertura di 3.400 procedure concorsuali. È quanto emerge dalle più recenti indagini del Cerved Group, la società che gestisce banche dati per conto di Camere di Commercio e istituti di credito.
Le rilevazioni pongono in risalto che falliscono principalmente le imprese di piccola dimensione, la maggior parte delle quali (70% delle menzionate procedure) sono società di capitali. L’industria rimane il comparto con la maggiore frequenza di fallimenti, anche se in termini assoluti non si rilevano quest’anno incrementi di procedure in questo settore. Decisamente in ascesa, invece, il numero di procedure concorsuali che riguarda il settore delle costruzioni (+7,1%) ed il terziario (+16,4%), specialmente i servizi immobiliari, finanziari e i trasporti.
Si fallisce di più in tutta la Penisola, senza grosse differenziazioni in termini percentuali, anche se l’aumento delle procedure fallimentari è maggiore nel Nord-Ovest (+10,1%) e nel Centro-Sud (+11,1%). Il Veneto appare invece virtuoso sotto questo aspetto, presentando addirittura un trend positivo in controtendenza (-1,5%). Il “mito” della produttività del Nord-Est resiste ancora, nonostante tutto.
Fatto sta che “fallire”, “fallimento”, “fallito”, sono termini che nel linguaggio comune ricorrono con connotazioni di certo non positive, legate in genere al concetto di “insuccesso”, velatamente biasimato. Pertanto, in una società dove l’imprenditore di successo è osannato e fatto assurgere a icona nell’immaginario collettivo, il verbo “fallire” non può che suscitare una certa angoscia in chi svolga un’attività imprenditoriale.
Può consolare solo in parte che nel linguaggio giuridico ed economico le voci in questione abbiano una valenza più neutrale, facendo riferimento alle misure conseguenti all’irreversibilità dell’insolvenza di un debitore. Tra l’altro oggi, a seguito della riforma legislativa iniziata nel 2006, l’istituto del fallimento ha un’impostazione meno penalizzante rispetto al passato.
Il conseguimento della maggior tutela dei creditori danneggiati dall’insolvenza di un’impresa, prevale sugli aspetti “punitivi” da cui era connotata la pregressa normativa. Inoltre, lo Stato non nega più la possibilità di ulteriori chance di ripresa all’insolvente, dandogli la possibilità di reinserirsi nel sistema produttivo, una volta sanata la propria posizione debitoria.
Ciò non toglie che, a meno che non si versi nella patologia e il fallimento sia “pilotato” per scampare alle giuste istanze creditorie, fallire rimane uno spauracchio per chiunque eserciti un’attività imprenditoriale. Uno“spettro”che ogni giorno in Italia si materializza per circa quaranta aziende.
Raffaele Basile
Foto: http://www.imageafter.com/image.php?image=b19industry111.jpg