Il volontariato in ospedale come risposta a una richiesta d’aiuto

Scopriamo le attività dell’AVO, l’Associazione che si occupa del volontariato in ospedale, per capire come possa essere una vera e propria risposta alla richiesta d’aiuto e alla sempre più crescente fame d’amore.

“Non tocca a me”, una frase breve, asciutta e altrettanto fredda. Uno “scarica barile”, un modo, neppure troppo velato, per dire “Non posso, pensaci tu”.
Correva l’estate del 1975 e il professor Erminio Longhini camminava velocemente nel Policlinico di Milano: doveva sbrigarsi, c’era un malato grave ed era necessario un suo consulto, ma fu distratto da un lamento che proveniva da una delle stanze. Si trattava di una paziente accasciata nel letto, si lamentava e le altre degenti sembravano non sentirla, qualcuna leggeva incurante. Il medico le si avvicinò e le chiese:  «Le serve qualcosa?». La donna rispose con un filo di voce: «Acqua, acqua, ho tanta sete». Il dottor Longhini si rivolse allora a una ragazza in camice bianco che stava pulendo il pavimento, totalmente disinteressata ai lamenti della donna, spronandola a fare qualcosa: «Non sente che quella signora la sta chiamando? Ha bisogno d’aiuto». Ma lo sguardo della ragazza era meravigliato, infatti si limitò a rispondere: «Non tocca a me». Quel “non tocca a me” risuonò nella mente e nel cuore del dottor Longhini, e mai più l’avrebbe dimenticato.

Fu proprio da quelle parole che l’AVO, l’Associazione volontari ospedalieri, nel 1975 vide la luce. Questa realtà, pur ispirandosi ai principi cristiani, è tuttavia laica e si pone come principale obiettivo l’assistenza del malato nelle strutture socio-sanitarie. È un servizio che non intende e non può sostituire il lavoro di medici e infermieri, ma che vuole comunque offrire, tramite i volontari, tempo e dedizione a chi si trova ricoverato in ospedale o in un’altra struttura. I volontari vengono adeguatamente formati attraverso un corso base e altre giornate di approfondimento, a cui segue un periodo di tirocinio per “testare” motivazioni personali ed eventuali esperienze vissute che potrebbero condizionare il neo-volontario. Niente è lasciato al caso e solamente dopo questo percorso e un colloquio si può decidere se si è pronti a intraprendere il cammino.
Molto tempo è trascorso da quell’estate del 1975 e in questi anni l’AVO è cresciuta sempre più, arrivando a contare in Italia ben 450 ospedali e case di riposo in cui opera e 217 sedi, per un totale di 27.000 volontari.
(Chi fosse interessato a diventare volontario AVO, può trovare le informazioni sul sito ufficiale della sede di Milano, oppure contattare una delle sedi presenti in tutte le principali città italiane.)

Per capire quali sono le motivazioni che spingono così tante persone a intraprendere questo percorso di volontariato, è utile sapere che numerosi volontari decidono di donare parte del proprio tempo a seguito della perdita di un familiare, spesso il padre, la madre, il coniuge o comunque una persona molto vicina. Abbiamo ascoltato il parere e le testimonianze di alcuni volontari presso l’ospedale Versilia di Lido di Camaiore. Vediamo, prima di tutto, come si svolge una giornata tipo in ospedale: «Ognuno di noi ha il suo turno – ci racconta uno di loro –, alcuni la mattina, altri il pomeriggio. A ciascuno viene assegnato un reparto. Ci si limita a entrare nella stanza del paziente, salutarlo, sorridere. Poi ci si presenta, specificando qual è il nostro ruolo, anche se i volontari sono riconoscibili dal camice bianco-verde. Dopo questo primo approccio è importante capire se il paziente ha voglia di parlare, se preferisce ascoltare da noi qualche aneddoto, se ha bisogno di qualcosa o se vuole essere lasciato a riposare».
Il volontario continua dicendoci che, in questo impegno quotidiano, è sempre importante chiedere ai pazienti in cosa si può essere loro utili, dal momento che alcuni preferiscono farsi leggere un libro, altri farsi porgere un oggetto necessario, altri ancora richiedono soltanto un po’ di ascolto. In un impegno come questo, inoltre, è importante cercare di capire qualcosa in più di loro, ad esempio osservando gli oggetti che tengono sul comodino, preziosi indizi anche per la conversazione. Una volontaria ci spiega che ha deciso di intraprendere questo cammino dopo la morte di sua madre, resasi conto che durante il ricovero in ospedale traeva molto conforto dalla visita dei volontari AVO. «Le facevano compagnia quando io e mio padre non potevamo essere con lei» sottolinea, aggiungendo che l’esperienza di volontariato in ospedale l’ha fatta crescere, mostrandole quali sono le cose che davvero contano nella vita e, soprattutto, accorgendosi che molte persone capiscono il senso dell’esistenza quando ormai vi sono giunte al termine. Da queste parole si comprende che l’Avo non è solo un toccasana per i malati, che ricevono compagnia e supporto, ma è un dono per chi svolge questo prezioso servizio, che si fa sostegno anche per i familiari di cui spesso capita di incrociare gli sguardi. E alcuni di loro, in quello sguardo, si limitano a sussurrare silenziosamente che il loro caro non ce la farà.
Inoltre, alcuni pazienti confidano ai volontari cose di cui neppure i parenti più prossimi sono al corrente, altri in un primo tempo respingono qualsiasi volto amichevole e, abbandonati da parenti e amici, si domandano come sia possibile che uno sconosciuto si interessi a loro. A tal proposito una volontaria confida: «Una paziente mi ha aggredita verbalmente, mi ha detto che il nostro sorriso non poteva essere altro che una presa in giro.

Tuttavia, dopo un primo approccio un po’ difficile, si riesce a fare amicizia anche con il paziente più indignato».
D’altronde, è il caso di precisarlo, “La solidarietà è l’unico investimento che non fallisce mai”, come affermava il filosofo e scrittore Henry David Thoreau. Questa frase, in effetti, rappresenta tutto ciò che il volontariato è nella sua grandezza e in quel suo donarsi gratuitamente: Longhini ne fece una filosofia di vita e i volontari di oggi cercano di seguire la strada da lui tracciata. Facendo volontariato all’AVO sono numerosissimi gli sguardi che si incrociano: molti anziani, ma anche troppi giovani. In una stanza si conosce la vecchietta circondata dagli affetti, in un’altra l’anziano dimenticato, poi la donna che tornerà alla sua vita e l’uomo che, invece, non vedrà l’alba del giorno seguente.
Abbiamo domandato a una volontaria, ancora tirocinante, se ci fosse stata una situazione che più le era rimasta in mente o un paziente a cui si era particolarmente affezionata, o che l’aveva colpita. Ci racconta di aver conosciuto una coppia sposata da sessant’anni. «Lui era ricoverato da alcuni giorni e lei se ne prendeva cura, scherzavano e giocavano tra loro come dei ventenni e facevano a gara per ricordare i dettagli di quando, ancora ragazzi, si erano fidanzati e infine sposati». Ci dice anche di aver conosciuto un uomo che aveva girato il mondo, molto colto, tanto che non c’era argomento su cui non fosse preparato. «Un giorno mi promise entusiasta che appena dimesso ci saremmo visti per un tè, ma la volta successiva il suo letto era ormai vuoto. Credo fosse tornato a casa».
Dopo aver ascoltato i brevi racconti dei volontari, si capisce che tutti questi volti della sofferenza hanno in comune lo stesso desiderio di sentirsi “qualcuno”, di vedere che una piccola luce si è accesa anche nel buio più profondo, di sentirsi per un attimo accolti, accettati, amati. Per questo il volontariato in ospedale è una grande risorsa, in particolare per chi lo pratica, non solo per chi lo riceve. Tutti hanno la stessa fame di sentirsi importanti, di sentire che contano, anche nella loro condizione precaria, e i volontari hanno proprio il compito principale di lenire questa sofferenza, di ridare valore a chi sente di non valere più nulla, di riaccendere la fiammella della speranza proprio là dove sembrava essersi spenta per sempre.

Katia Pellegrinetti

Katia Pellegrinetti

Sono nata il 5 Febbraio 1987, nella cittadina del carnevale: Viareggio. Ho iniziato a scrivere sin da piccolissima, esordendo, ancora alle elementari, nel lontano ’96, con la poesia “Fuochi artificiali”, ricevendo il premio Bertelli. Nel 2010 ho pubblicato il mio primo romanzo “Polvere di stelle”, con Cinquemarzo editore, seguito nel 2011 da “Gli uomini vengono da Marte, le donne dipende”, collana “Libri d’attesa”, per lo stesso editore. Ancora nel 2011 ho iniziato le prime collaborazioni con il portale Torinolibri. Nel 2012 ha visto la luce la raccolta di fiabe, scritta a quattro mani con l’autrice Michela Redaelli, “La torre fantastica”, Marco Del Bucchia editore. Nel 2013 ho vinto il concorso di poesia con la casa editrice Butterfly, da cui è nata l’antologia, composta da più vincitori, “Sussurri dal cuore e dalle tenebre.”

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