
Arte e terapia: lo spazio dove tutti possono diventare “qualcuno”
Fin dagli anni Quaranta del secolo scorso l’arte e la terapia costituiscono un connubio dalle mille sfaccettature, ognuna delle quali rimanda allo spazio interiore da vari punti di vista. Nell’arteterapia ciò che conta è il processo, il rapporto tra l’artista e il mezzo, la centralità di ogni individuo in quanto artefice e protagonista della sua opera.
La psicologia e l’arte sono sempre state interconnesse fin da epoche remote, con la parentesi del Medioevo, periodo in cui l’espressione delle pressioni psicologiche venne oscurata dalle pratiche magiche e dalla superstizione, che vedevano nel disagio e nella diversità una traccia diabolica da cancellare ed estirpare anche con la violenza.
Le antiche civiltà avevano capito quanto importante fosse per il benessere dell’individuo e della società veicolare i contenuti della psiche attraverso un mezzo espressivo, e lo consideravano tanto importante da associare l’espressione artistica alla dimensione della sacralità. Oscurata dalla superstizione medievale, quest’arte “fisiologica”, perfettamente integrata nel tessuto sociale, è lentamente riemersa verso la fine del XVIII secolo con la pratica della “Terapia Morale”, un approccio al disagio psichico basato sull’ergoterapia, ovvero terapia occupazionale, introdotta nel 1793 da Philippe Pinel all’ospedale della Salpêtrière di Parigi, dove riuscì a eliminare la violenta repressione e lo stato di prigionia in cui vivevano i degenti psichiatrici. Lentamente, così, l’arte e la terapia si sono ritrovate. Lo stesso Van Gogh, nei suoi periodi di degenza, usufruì di questo programma terapeutico. Da allora l’arteterapia continua a riguadagnare il terreno perso nell’Età Media e laboratori creativi stanno sorgendo in tutto il mondo.
Le sessioni di arteterapia si svolgono in un ambiente in cui l’individuo è chiamato a esprimere o lenire il disagio e l’ansia attraverso i colori, i più svariati materiali, la musica, la danza e qualsiasi altro mezzo a disposizione. Qual è dunque la differenza tra una performance autobiografica di Marina Abramović o le sculture femministe di Kiki Smith e una performance di uno schizofrenico o il quadro di un autistico, realizzati in un atelier di arteterapia? In cosa sono diverse e cosa le accomuna?
Una grande differenza risiede sicuramente nella padronanza del mezzo e nella consapevolezza in tutti i sensi. Chi si avvicina all’arteterapia è motivato soprattutto dall’ingestibilità del proprio disagio, e viene iniziato all’impiego di mezzi artistici, quale preludio a un viaggio alla scoperta di se stesso attraverso la manipolazione e l’espressione. L’opera prodotta in questo ambito non ha importanza e non è soggetta a una critica d’arte né, tantomeno, analizzata a fini diagnostici, in quanto il fulcro è costituito dal processo in sé, dal percepirsi nel corso dell’esperienza, e non dal suo prodotto. Al contrario, un artista inizia un percorso di formazione, più o meno analogo, con l’intenzione di diventare un professionista dell’arte e quindi proietta le sue azioni fuori dalla sfera del sé.
Un’altra grande differenza risiede nel contesto: l’atelier di arteterapia è un luogo protetto, una specie di guscio in cui l’individuo è autorizzato a dare libera espressione alle sue emozioni e fantasie, utilizzando i mezzi messi a sua disposizione; un luogo e un tempo terapeutici che definiscono il tipo di azione, proteggendo, allo stesso tempo, le fragili emozioni del protagonista. Un artista contemporaneo, che cerca il riconoscimento del pubblico e della critica, agisce invece in ambiti più idonei al suo scopo: spazi pubblici e istituzionali o gallerie private, esponendosi così al pubblico giudizio e ai rischi emotivi di un eventuale fallimento.
Ciò che l’arteterapia e l’arte contemporanea condividono è il nucleo intorno al quale ruota il processo creativo, cioè l’individuo e la valorizzazione del sé e delle sue istanze. L’arteterapia offre quindi uno spazio esistenziale analogo e parallelo a quello dell’arte contemporanea, un ambito in cui chiunque può essere protagonista e non solo all’interno dei ristretti limiti del setting terapeutico ma, attraverso piccole mostre locali, anche nell’ambito più vasto della propria comunità, lontano dal fragore della fama e dall’abbaglio dei riflettori.
Laura Marsano