I difficili rapporti tra Cina e Tibet

La recente rivelazione da parte del Dalai Lama, relativa a un complotto della Cina per avvelenarlo, riaccende i riflettori sui problematici rapporti tra Cina e Tibet, compromessi nel 1950 dall’occupazione del territorio tibetano da parte delle truppe cinesi. (Foto: Flickr cc centralasian)

La smentita della Cina è stata immediata ovviamente, ma è arrivata farcita di velenose invettive contro le attività di “propaganda anticinese” di Sua Santità il Dalai Lama, somma autorità delle millenarie tradizioni spirituali asiatiche. Insomma è come dire che il Papa svolge attività sovversive perché denuncia la corruzione e l’immoralità presente nel mondo occidentale.
La longa manus dei cinesi si è spinta fino a fastidiose ingerenze, nonché minacce, nei confronti dei governi occidentali che spesso e volentieri ricevono ufficialmente le visite del Dalai Lama, non risparmiando bacchettate neppure a Sarkozy e Obama. Questo leader si delinea sempre più come una carismatica figura spirituale e di coesione culturale che raccoglie simpatie e solidarietà in tutto il mondo anche dai non buddisti, tanto da essere stato insignito del Premio Nobel per la pace nel 1989 per la resistenza non violenta contro la Cina. Fino al 1959 era sovrano assoluto del Tibet ma dall’11 marzo 2011, per sua stessa decisione, non è più neppure il capo del governo tibetano che ne ha eletto il successore.
Le difficoltà nei rapporti tra Cina e Tibet sono iniziate nel 1950 quando la prima ha occupato quasi tutto il territorio tibetano ed ha cercato con tutti i mezzi di manipolare le antiche tradizioni. L’ultimo atto di questo lungo dramma sono la promessa di una ricompensa equivalente a circa 650 euro ai delatori di attività separatiste, severamente punite con lunghi periodi di “rieducazione culturale”, e la proibizione dell’uso di telefono e internet per diffondere notizie sulle proteste. Nell’ultimo anno ben 30 monaci si sono tolti drammaticamente la vita in segno di protesta per le inaccettabili condizioni a cui sono sottoposte le comunità religiose e civili tibetane, e altri appelli disperati continuano ad essere lanciati dagli esuli. Dal 22 febbraio è in corso uno sciopero della fame davanti al palazzo delle Nazioni Unite che, insieme all’Unione Europea, dopo lunghe esitazioni nell’intromettersi nei rapporti tra Cina e Tibet, hanno ufficialmente preso posizione nella riunione di Ginevra del 27 febbraio, facendo richiesta al governo cinese di rispettare i diritti umani, la libertà di pensiero e la presenza di osservatori stranieri in Tibet.
Attualmente i monasteri tibetani che non sono stati smantellati sono ostaggio della rivoluzione culturale cinese, infatti il numero dei monaci è chiuso, le giovani reclute vengono selezionate rigorosamente dalle autorità occupanti e prendono il posto dei deceduti. Un’altra incredibile azione di controllo consiste nella pretesa del governo cinese di designare il nuovo Dalai Lama che invece, secondo la tradizione delle pratiche buddiste, viene individuato dai lama attraverso gli oracoli, come reincarnazione del predecessore, subito dopo la sua morte. Questa radicale innovazione porterebbe al definitivo snaturamento del nucleo centrale del Buddismo Tibetano, trasformandolo in un potente strumento di espansionismo e controllo culturale da parte della Repubblica Popolare Cinese. L’autorità del Dalai Lama è infatti tradizionalmente riconosciuta sia in tutto il Tibet, territorio strategico tra Cina e India, che in Mongolia, lo stato più grande del mondo, che si è reso indipendente dalla Cina nel 1921 ed ora è una repubblica parlamentare confinante a nord con la Russia e a sud con la Cina, senza contare le innumerevoli comunità buddiste sparse in tutti i continenti. Secondo le cifre diffuse dalla CIA nel luglio 2009 i buddisti nel mondo ammontavano a circa 396,539,366 – 5.84% della popolazione mondiale – in maggioranza cinesi e mongoli, anche se altre fonti riferiscono cifre da capogiro che, includendo simpatizzanti e nuove conversioni, arriverebbero fino all’80% della popolazione mondiale.
La natura pacifica di questa religione, permeata di una profonda filosofia dell’esistenza, di cui i monaci tibetani sono i fedeli depositari, è un patrimonio inalienabile di tutta l’umanità e l’espressione spirituale di un alto senso della civiltà che irradia tutto il mondo. Preservarne la purezza e l’integrità è interesse di tutti e il prevalere delle mire strumentali di un Paese invasore, notoriamente incurante dei valori universali della spiritualità e della ricerca interiore, sarebbe una perdita incolmabile ed una sconfitta di tutta l’umanità.

Il 27 ed il 28 giugno il Dalai Lama sarà al Mediolanum Forum di Assago dove parlerà del tema della felicità al di là della religione.

                                                                                                                                  Laura Marsano

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