Riscoprire un modello antico con gli alimenti a chilometri zero

Scioperi e maltempo hanno evidenziato la facilità con cui il trasporto di beni alimentari possa essere improvvisamente interrotto. Scaffali vuoti e prezzi alle stelle testimoniano che, con l’avvento della grande distribuzione, il Bel Paese sembra aver dimenticato il valore della produzione locale. (Foto: Flickr cc dynisse)

Banane ecuadoregne, papaye dal Costa Rica, arance spagnole e mango sudafricano. Camminando tra gli scaffali di un grande supermercato è normale imbattersi in cassette dai marchi variegati, ricolme di frutta proveniente da ogni parte del globo. Col passare degli anni ci siamo sempre più abituati ai prodotti esotici e fuori stagione, tanto che ora potrebbe sembrare difficile farne a meno. Nelle ultime settimane, però, scioperi ad oltranza e maltempo hanno messo in grande difficoltà l’intero apparato dei trasporti, dimostrando quanto possa essere fragile un sistema che, nel cercare il prodotto al minor prezzo possibile – ovunque esso sia –, fa della movimentazione delle merci un elemento essenziale. Lo sviluppo di una maggiore coscienza ambientale e la ricerca di uno stile di vita più salutare stanno però spingendo il settore alimentare verso soluzioni più sostenibili, sia per i produttori che per i consumatori.
Il significato dell’espressione “prodotti a chilometri zero” è intuitivo. Si tratta di beni – definiti anche “a filiera corta” – di produzione locale, per i quali il trasporto e il numero degli intermediari sono ridotti al minimo. Questo modello, riscoperta di uno schema antico quanto l’agricoltura stessa, presenta numerosi vantaggi economici, ambientali e qualitativi.
I vantaggi economici sono facilmente intuibili. Accorciando la filiera si limita il numero degli operatori coinvolti, si riducono le spese per stoccaggio ed imballaggi e si accorciano i trasporti: tutti elementi che finiscono per incidere fortemente sul prezzo dei prodotti. La riduzione dei costi consente, almeno potenzialmente, sia un risparmio per il consumatore che un maggiore introito per il produttore, potenziale motore per uno sviluppo sostenibile su base locale. Il coltivatore è infatti in grado di incassare almeno una parte delle somme che abitualmente andrebbero ad appannaggio di intermediari e trasportatori e di recuperare ritmi più adatti all’attività agricola. Infatti, l’effetto negativo principale delle produzioni intensive – che caratterizzano il settore alimentare odierno – è proprio l’impossibilità di far riposare la terra. Ne consegue l’utilizzo crescente di concimi, spesso chimici, che riversano i propri effetti sulle produzioni, sui terreni e sulla salute delle persone.
La riduzione della distanza tra luoghi di produzione e di vendita determina anche un grande vantaggio ambientale, attraverso la riduzione delle emissioni di CO2 dovute al trasporto. A ciò va aggiunto il taglio dei consumi di energia, acqua, plastiche e imballaggi vari necessari per la movimentazione e lo stoccaggio.
Risparmio per il consumatore e per il produttore e tutela ambientale, dunque, ma non solo. La caratteristica fondamentale di questo sistema è la qualità superiore dei prodotti. Il modello “chilometri zero” permette di riscoprire il piacere delle stagioni nella loro diversità e di ritrovare quei sapori che sembrano sempre più appiattirsi in nome di un mercato che, nel tentativo di essere globale ad ogni costo, finisce per rinunciare alla qualità.

Alessandro Turco

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