Giovani, il futuro è vostro. Sappiatelo vedere
I giovani italiani di oggi si trovano di fronte a un mondo del lavoro che sta mutando pelle. Forse per sempre. La scelta è quella di perseguire una sempre più difficile carriera stabile con crescita interna oppure un’imprenditorialità sempre più accentuata fatta di idee innovative e voglia di mettersi in discussione.
Il primo giorno del mese di agosto del 1820, un ragazzo piccolo, gracile e fisicamente molto fragile, forse all’ombra di un bellissimo leccio, annotava nei suoi personalissimi appunti queste frasi:
[…] Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia. […] L’ardore giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente in considerazione degli uomini di stato. Questa materia vivissima, e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente […]. (G. Leopardi, Zibaldone, 195-6)
Il pensiero faceva parte di un discorso di più ampio respiro che esortava alla ricerca di un’esistenza quotidiana all’insegna della vitalità e in contrapposizione alla monotonia, da lui chiamata noia. Il flebile e stanco ragazzo si chiamava Giacomo Leopardi e le sue riflessioni, oggi più che mai, appaiono attualissime.
In effetti, pensiamo ai giovani. Chi se non loro costituiscono il più certo futuro di una nazione? È necessario si trovi il coraggio di riprendere in mano la generazione del nostro futuro. Per non rimanere indietro. Per non rimanere arretrati.
Se analizziamo il mondo del lavoro, in effetti, in Italia la situazione non sembra particolarmente rosea – all’estero non è certo meglio, ma questo non ci consola.
Al di là di ogni valutazione economica contingente – e speriamo il quanto più passeggera possibile –, è innegabile che, in questo momento, di lavoro ce ne sia poco. E quel poco che c’è purtroppo è sempre meno a disposizione di lavoratori comunque volenterosi ma inevitabilmente inesperti quali possono essere i giovani. È un processo socio-economico naturale. Se c’è poco ricambio nel mondo del lavoro, si crea anche una conseguente “disaffezione”, o meglio, disillusione delle classi che cercano questo lavoro. I recenti dati emessi dall’Istat, infatti, sembrano dimostrare questo fenomeno.
Nel nostro Paese, i cosiddetti Neet – acronimo inglese che letteralmente sta ad indicare i giovani compresi tra i 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non svolgono nessun tipo di apprendistato professionalizzante, Not in Education, Employment or Training, appunto – sono oltre due milioni, il 21,2 per cento della popolazione nazionale di riferimento. Dall’uscita del dato – in tardo aprile – si sono susseguiti analisi, dibattiti e litigi tra i massimi giuslavoristi, giornalisti e politici. Senza voler entrare nel merito della querelle, vogliamo semplicemente dire che, al di là di ogni speculazione sul tema, il dato deve far riflettere.
Sarebbe interessante poterlo approfondire da un punto di vista socio-pedagogico ma questo richiederebbe ben altra analisi. In questa sede ci limitiamo a sollevare la questione.
L’attuale mercato del lavoro italiano è attrattivo per i giovani?
La risposta non può e non deve essere né immediata né unidirezionale. Ci sono ovviamente alcuni punti favorevoli e altri un po’ più delicati.
Tra questi, ricordiamo che storicamente l’Italia ha sempre avuto a che fare con un mondo occupazionale abbastanza statico, nel senso che non è anomalo per un lavoratore medio italiano quello di entrare in azienda e lavoraci per tutta la vita. Questa è la famigerata verticalizzazione delle carriere. Si cresce interamente. Lo si è sempre fatto e alcuni retaggi del passato – difficilmente scalzabili nell’immediato futuro – ci fanno capire che si farà così probabilmente anche domani. E questo non costituirebbe un problema in sé.
Purtroppo però la globalizzazione e le enormi spinte concorrenziali ci costringono a una disciplina necessariamente più competitiva sia per quanto riguarda le assunzioni, sia per quanto riguarda la liberazione di risorse aziendali. In una parola, nel momento in cui il mercato del lavoro italiano mantiene la sua storica staticità, tutto il mondo vira verso un dinamismo occupazionale di matrice americana. E questo crea inevitabilmente delle discrepanze che non possono non essere affrontate.
Le nuove generazioni si trovano catapultate, infatti, nel bel mezzo di una delle peggiori flessioni economiche mondiali della storia e, contemporaneamente, in un mercato del lavoro con forti pressioni globalizzanti. Di conseguenza, le imprese italiane – che si sono trovate spiazzate da entrambi i fattori occorsi negli ultimi cinque o dieci anni – sono al momento generalmente incapaci, salvo virtuose minoranze, di mettere in piedi un’impalcatura nella quale il giovane possa crescere “naturalmente”, farsi lavoratore esperto e spendersi profittevolmente per la propria impresa.
Ma attenzione, perché non tutto è perduto. Specialmente quando parliamo di italiani e lavoro.
Sì, perché se da un lato devono affrontare una situazione alla quale non erano certo abituati, i giovani italiani che dimostrino di avere una grande voglia di fare – e ce ne sono tanti in Italia – hanno finalmente la possibilità di svincolarsi da quelle logiche autoreferenziali che li incatenavano in precedenti strutture aziendali predeterminate.
In poche parole, il giovane lavoratore di oggi è molto più imprenditore di se stesso e artefice del proprio destino, lavorativo e non. Ha la possibilità di sviluppare proprie idee in autonomia e metterle al servizio di aziende sempre più disposte a remunerare cospicuamente collaborazioni vantaggiose e saltuarie piuttosto che stantie ma insolubili.
C’è spazio per un nuovo modo di fare lavoro.
Come sempre il motto è uno solo: determinazione e voglia di emergere.
Simone Schmalzbauer
Foto: http://www.flickr.com/photos/mikebaird/3070169230