.|Fughe e salvezze|.

In un antro scuro e polveroso, tra erbette selvatiche e foglie di castagno, un profondo buco si apriva tra le radici nodose di un grande albero. Davanti al foro, largo poco meno di una spanna, alcune margherite sembravano fare da decoro per l’ingresso.
A meno di tre metri di distanza, un grosso topo, con la coda lunga e grigiastra, correva a perdifiato verso l’albero, inseguito da un grasso gatto nero con una chiazza bianca attorno a un occhio.
Il topo, visibilmente affannato e terrorizzato, aveva due paia di baffi ritti e appuntiti, che ondeggiavano flessuosi a ogni balzo. Muoveva le sue zampine con una tale rapidità che per poco non inciampava tra le radichette che si alzavano delicate dal terreno, o nell’erbetta fresca e appiccicosa, bagnaticcia di umidità. Il gatto, con una smorfia acre e minacciosa, fece un rapidissimo salto in avanti, sfiorando il povero topo, che riuscì a sfuggire alle temute grinfie soltanto per un baffo.
In pochi istanti – che gli sembrarono un eterno e incessante susseguirsi di ore – fu dentro, lasciando il gattaccio a sbattere il muso baffuto contro la radice legnosa, e avvertendo un fragoroso «waoooo» lamentoso. Il naso del gatto si infilò di soppiatto nel buco, ma era troppo piccolo e dovette rinunciare a ogni aspirazione, accontentandosi del solito cassone del biologico nel giardino.
Quel giorno la salvezza seppe di fragoline di bosco.
Al centro dell’ambiente sotterraneo, sotto un soffitto di nodi di legno bitorzoluti, una manciata di fragoline rimaneva adagiata sonnacchiosa, in attesa del ritorno del legittimo proprietario. Le aveva raccolte con agile rapidità subito prima di incontrare il temibile nemico, il miagolatore che terrorizzava tutti i topi del giardino. Ne erano rimasti pochi dal suo arrivo, circa un anno prima.
Il topo, sicuro che, almeno per quel giorno, avrebbe potuto godere della vita, si accucciò sul pavimento di terra e iniziò a guardare con i suoi occhietti le fragoline rosse. Alcune non erano ancora pienamente mature, ma non se ne sarebbe fatto un problema. Con un balzo leggiadro, ne acciuffò una, facendo rovinosamente rotolare, sparpagliate per la tana, le altre. Le inseguì, mordicchiandole e afferrandole, per poi lasciarle nuovamente rotolare. Adesso era lui il predatore. Il divertente passatempo terminò in pochi minuti, con la pancia sazia e la coda avvolta intorno, pronto per un lungo e sonnacchioso riposino.
Ma il vento, all’esterno della tana, faceva entrare freddo e tra i buchi dell’albero si insinuava anche un fastidioso ululato che lo terrorizzava. “Che tempaccio” deve aver pensato in quel momento, stringendosi la coda tra le zampine morbide e bianchicce. Gli ritornò in mente il temibile miagolio del grasso gatto che aveva tentato di sedare il suo appetito divorandolo. Tremò di paura.
Dopo un po’, il vento sembrò attenuarsi, la gelida corrente che entrava da tutti i fori parve disparire e lui potette, nell’angolo più buio e meno spigoloso della tana, chiudere gli occhi e sognare una bella giornata.
Il giorno dopo, all’alba, si svegliò sazio di sonno e si preparò per uscire. In neanche tre secondi, fu con la testolina fuori dalla tana. Via libera. L’esplorazione partì dall’area adiacente. Foglie e pianticelle di scarso interesse. Sulla destra, proseguendo, incrociò le fragoline di bosco – di cui ormai rimaneva solo il verde – mentre a sinistra, poco più avanti, svettava allegro un girasole, ancora assonnato, ma quasi pronto a osservare con i suoi petali il centro attorno al quale ruotava tutta la sua esistenza. Fece ancora qualche passetto in avanti, scorgendo un reperto interessante. Rinchiusa in parte in scorza rossa e lucida, una polpa asciutta ma succosa, giallastra, che terminava, internamente, con alcuni semini neri. L’aveva assaggiata altre volte, e gli piaceva sempre davvero tanto. Ma, dopo averla assaporata e gustata fino in fondo, si accorse, con la coda dell’occhio, di due grandi sfere di vetro, lucide e trasparenti, che lo fissavano. Un agglomerato di pelo nero, fiacco e cadente, su un corpo pingue e mollaccioso. La fuga ripartì, come ogni giorno. Il gatto fece un balzo terribile e gli fu quasi addosso. Il topo corse, non pensando e non sapendo nulla, quasi neanche la direzione. Era terrorizzato.
Il gatto ormai pensava che sarebbe stato suo e già ne pregustava il sapore succulento, sentendo il suo stomaco stringersi dalla fame. Il topo corse come un forsennato, pregando, in cuor suo, di raggiungere l’amato buco prima che fosse troppo tardi, prima di finire i suoi giorni nella pancia dell’orribile gattaccio. Pensò anche, nella folle corsa, quanto fosse dura passare dalla dolcezza di un frutto giallo e delicato – quello assaporato prima con delicatezza– alla pancia acida e maleodorante di un gatto spelacchiato.
Il gatto fu certo di prenderlo. Ma a volte la fortuna ci mette lo zampino. E così, il secchio di latta, nascosto nell’erba, che tanto facilmente aveva schivato il topo in preda al panico, segnò lo schianto più fragoroso della giornata.
La tana era raggiunta. Di nuovo salvo.
Come ogni volta, il topo avvertì il naso del gatto e i suoi baffi, su, all’ingresso. Ma orami non c’era più alcun pericolo.
Ripreso fiato, si ritrovò da solo nella sua tana, il luogo più sicuro al mondo.
Quel giorno la salvezza mantenne il sapore fragrante di una mela matura.

Marco Papasidero

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