Finché avrò fiato

La storia di un’infanzia negata, vissuta lontano dagli affetti in un collegio ostile, mentre la vita avanza inesorabile; la nostalgia dei giorni trascorsi perduti, la voglia di riscatto e la lezione da gridare al mondo. Un libro dedicato a qualcuno o a se stessi, che comunque parla di una realtà che ci appartiene.

Rosetta Pezzino, Finché avrò fiato, Kimerik 2010

La protagonista del romanzo, una ragazzina abbandonata dalla madre, slegata dai fratelli, tenuta lontana dai nonni, cresce in un collegio prigione tra prepotenze e obbedienza. Narra la solitudine e il desiderio di affetto, di carezze e sorrisi che non arrivano mai, costretta a vivere senza consigli e senza famiglia. Infine, la voglia di farcela, l’orgoglio e la caparbietà di una ormai donna capace di destinarsi il sogno della vita: una famiglia.
È come un diario, ripreso tra le mani e riletto da adulti, che commisera la storia triste e sventurata di una bambina, forse se stessa. L’autrice segna le emozioni della protagonista, le reinterpreta e ne piange, racconta il rancore e il rimpianto, quasi con ossessiva ricerca di esorcizzare una persecuzione. Una sorta di scrittura autoterapeutica. È una lotta contro la vita vissuta; lei, la protagonista, è forte, reagisce contro le angherie, emerge, poi sprofonda nella depressione, rinasce, ritrova la stima, ma nella sua mente resta traccia. Ricerca e trova dei punti di riferimento: i nonni, Dio. Alla fine, in una sorta di delirio e di ambivalenza, dove pensieri negativi e positivi si concentrano sullo stesso oggetto, l’uomo, risultano di troppo prediche e rivendicazioni contro gli ostili che consapevoli del danno non si redimeranno.
Lo stile semplice di una lettura narrata, meditata e sofferta, viene a tratti appesantito da una cadenza fatta di sentenze che sembrano voler moralizzare e convertire il lettore; si percepisce una sorta di fastidiosa intrusione.
Il tema dell’infanzia negata e i danni legati alla carenza di affettività possono coinvolgere la sensibilità del lettore e fanno riflettere, quasi come in un caso clinico, ripercorrendo, dal trauma del distacco all’emergenza soggettiva del danno sulla psiche, ciò che può derivare dalla mancanza di soddisfazione dei bisogni primari del bambino nel rapporto diadico con la madre. La capacità della protagonista di far fronte alle ostilità della vita non riduce il rischio della compromissione di un sano sviluppo della personalità per altri bambini che vivono tale condizione. L’ottimismo di farcela è obbligatorio e augurale.
Consigliare questa lettura, a sfondo psicologico, lascerebbe interpretare o attribuire significati forse non congeniali; per cui, laddove il caso o la curiosità lo consentiranno, qualcuno che incontrerà questo romanzo potrebbe esserne interessato.

Piero Giordano

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