Mostar e Sarajevo… quindici anni dopo
Sono appena passati poco più di tre lustri dalla fine del conflitto balcanico, e le città simbolo della resistenza bosniaca sono tutt’oggi il termometro per tastare il polso di un Paese che ha conosciuto, in un modo cruento e impensabile alla fine del novecento, la barbarie della guerra, dei bombardamenti e della pulizia etnica. Tutto questo nel cuore della Middle Europa. (Foto: © Daniele Pistoni)
Scheletri bellici a Mostar
È difficile rendersi conto di quanto vicine siano a noi queste nazioni e questi popoli senza andare a ficcare il naso, magari via terra, nei loro territori. Io l’ho fatto dopo anni in cui me lo ripromettevo e in cui rimandavo l’appuntamento. Entrare in Bosnia-Erzegovina dall’estremo sud della vicina e turistica Croazia è ancora un’esperienza che segna il passo perché la strada corre tra vaste zone rurali disseminate di sinistri cartelli ammonitori dei campi tuttora minati. Ma è entrando a Mostar, tra gli scheletri dei palazzi dell’impero austro-ungarico e fori di proiettile negli edifici, che ho la sensazione di entrare in una città che come la Fenice sta provando a rinascere dalle sue ceneri. Osservando le foto fatte dopo i mesi dei bombardamenti sembra incredibile che qui possa essere risorta la vita, le immagini mostrano che della città ottomana del XV secolo non restano che cumuli di macerie e nulla più.
Lungo la Via dei Cecchini a SarajevoOra la vita ha ripreso a scorrere, seppur lenta come le scure acque della Neretva che si lasciano scivolare sotto lo Stari Most, il ponte simbolo non solo della città, ma soprattutto della distruzione e della riunificazione. Il ponte, distrutto durante il conflitto e ricostruito nei primi anni del nuovo secolo, è il simbolo della rinascita, e non solo per la sua incredibile bellezza, ma perché unisce nuovamente le due sponde che durante il conflitto hanno visto fronteggiarsi i cattolici croati e i mussulmani bosniaci. Ora la città durante le ore diurne si riempie di turisti che vengono portati in visita dalla vicina Medjugorje, ma al crepuscolo la città sprofonda in una quiete surreale, le strette vie del centro si svuotano, le bancarelle chiudono, lasciando solo il rumore dei mulini ad acqua e il canto del muezzin che si leva al cielo per la preghiera della sera. Osservo le luci che illuminano il ponte e poi sposto lo sguardo sulle colline che circondano la città, dove con le ultime luci della sera le distese di bianche lapidi brillano come fossero stelle del firmamento.
Sarajevo – Monumento all’uomo nuovoSeguendo il fiume in una stretta valle da Mostar ci dirigiamo verso la capitale del Paese, dopo un piccolo valico e meno di centocinquanta chilometri, entriamo a Sarajevo da quella che al tempo del conflitto veniva chiamata la “Via dei cecchini”, questo perché proprio sulla lunga e larga via che porta all’aeroporto si concentravano i cecchini serbi durante un assedio che durò tre anni. Ora la strada appare come una normale tangenziale con i palazzoni in stile sovietico a farle da cornice. Non ci sono più molti scheletri, ma osservando attentamente i piani più alti si notano ancora i fori dei proiettili come cicatrici. La strada ci porta direttamente nel cuore antico della città, la Baščaršija. Nato come luogo di scambio e mercato, il quartiere è ora il cuore turistico e non solo della rinata Sarajevo. Botteghe moderne, artigiani, ristoranti e caffè alla moda si riuniscono un in piccolo dedalo di strade animate.
Sarajevo – Cimitero in collinaL’unicità di Sarajevo nel mondo è però il suo incrocio di culture e religioni, nel suo cuore a un centinaio di metri di distanza si trovano infatti quattro luoghi di preghiera: una moschea, una sinagoga, una chiesa cattolica e una ortodossa. Questa concentrazione non si trova solo negli edifici, anche i ristoranti rispecchiano la fusione tra culture, come nella storia della città dove vecchi tram sferragliano tra cupole, minareti e palazzoni staliniani; anche nei piatti si incontrano la cucina europea, quella turca e quella ebraica.
Quello che unisce Sarajevo a Mostar sono però i grandi cimiteri di bianche lapidi che brillano sulle colline illuminate dal sole. Passeggiando tra di esse, mentre lo sguardo spazia sulla piccola valle in cui è racchiusa la città, non posso fare a meno di notare come la maggior parte rechi date comprese tra il 1992 e il 1995. Lapidi che a Mostar come a Sarajevo ci ricordano che la pace è qualcosa di essenziale per la crescita della civiltà, ma allo stesso tempo qualcosa di estremamente fragile da difendere ogni giorno con la cultura e il rispetto tra i popoli.
Daniele Pistoni