Catania irrequieta

Immagini di una città in cui terra, acqua e fuoco hanno forgiato una molteplicità di paesaggi esteriori e interiori, dalla decadenza delle annerite facciate barocche alla spensieratezza degli abitanti.

Non sapersi orientare in una città non significa molto. Fuori dalla stazione i primi passi per raggiungere il centro storico sono in direzione nord. Viale delle Libertà: isolati di case a blocchi, quadrati che si ripetono a intervalli regolari, fino a stringersi in un imbuto che finisce alle propaggini meridionali dell’Etna. Ogni tanto, tra i condomini grigi,  un piazzale male asfaltato con un autobus parcheggiato al sole. Il senso non è quello giusto, il mare è in direzione opposta. Catania dà il benvenuto al viaggiatore che arriva in treno: un viadotto basso, scandito da arcate affumicate dallo smog contrasta con il mare, un azzurro rotto dai cavi elettrici della linea ferroviaria. Da qui, via 6 Aprile, la strada che conduce al Porto Vecchio: è trafficata e gli alberi lungo la banchina non filtrano affatto il sole cocente. Accanto alle file di macchine parcheggiate un marciapiede stretto, magazzini dal sapore portuale e garage di artigiani tuttofare che odorano di attrezzi di ferro. Sulla porta i proprietari parlano con i passanti e dispensano informazioni a turisti in camicia a quadri e sandali.�
La strada che cinge i lati di Piazza dei Martiri è terra di motorini ad alta velocità. Non ci sono semafori e i vari conducenti mostrano particolare abilità a conversare dal finestrino con i vicini di corsia. Meglio attraversare sul lato nord e ritrovarsi d’improvviso in un dedalo di vie. Magnifico, barocco, fumoso: Palazzo Biscari nasconde un giardino interno rigoglioso e introduce ai segreti della città. Catania, impressioni contrastanti. L’intreccio delle vie è spezzato dal quadrato di Piazza Duomo. Uno sguardo verso nord e la geografia urbana pare rivelarsi nei suoi elementi più simbolici. L’Etna, un cliché turistico fin troppo logoro, può darsi. D’altra parte pende sull’orizzonte ogni qual volta si voltino le spalle al mare, con la vetta coperta dalle nubi (un fenomeno assai frequente data l’umidità che le correnti d’aria raccolgono salendo dal livello del mare fin sopra i tremila metri).
Un brusìo continuo, quasi confusione, proviene dal lato sud di piazza Duomo, proprio dietro il Palazzo del Seminario dei Chierici. Cassette di legno accatastate, bucce di banane, pozzanghere che sanno di pesce. Un mucchio di angurie pende pericolosamente dal cassone di un motocarro. Due meloni a un euro. Al mercato, nel rione della “pescheria quotidiana”, l’importante è gridare. Alcuni turisti si soffermano a fare scatti a sardine ammassate nelle scatole di polistirolo, mentre un’insegna bianca  con su scritto “Viva Sant’Agata” campeggia sulla piazza.
Cresce la confidenza con la città: arte, mare, religiosità, scaramanzia, carne di cavallo, granite e cannoli con i canditi. Una serie di immagini si addensano senza che la mente riesca a classificarle, mentre l’Etna in cartolina continua a essere dappertutto, prima con la cima innevata sulle vetrine di un bar, poi col mare turchese accanto, nelle guide turistiche della città. Da subito l’elemento primigenio di Catania è il vulcano, che le ha donato la culla lavica da cui deriva l’antico siculo “Katane”, “grattugia” appunto, per la conformazione a bande strette sul terreno accidentato della città originaria. E per questo, da sempre, luogo irrequieto. Eruzioni e terremoti ne hanno scandito la storia a livello urbanistico e non da meno sono stati i riflessi che tali avvenimenti hanno avuto a livello culturale. Ferri battuti, decorazioni, un che di fatalismo percorre il carattere delle persone e scandisce i ritmi del quotidiano, talvolta sfociando in un senso di abbandono. Un degrado persino comprensibile. Viene da pensare che la città sia così viva, religiosa e fragile, perché il vulcano la osserva di continuo, suggerendo di vivere alla giornata.
In Piazza Currò c’è il sole e fa caldo. Elisabetta, venticinque anni, vive da sempre in centro storico: «Catania è la città più bella della Sicilia. I ragazzini che fischiano alle ragazze, i parcheggiatori, abusivi, il traffico caotico, gli scippi in Via Plebiscito, i cenni della testa per dire “sì” e “no”. Dopo una notte alla Playa ci si ferma a mangiare brioches con gelato nei bar aperti qui sotto, in via Beato Cardinale». Una città che vive nei personaggi che la abitano. Tutti sembrano avere una storia da raccontare ed è facile aprire una conversazione: venditori di frutta (assai economica e saporita), giovani con capelli impomatati, ragazze eleganti di sera sui selciati sconnessi.
Alzando lo sguardo, case mezze abbandonate. Su una di queste, sempre in piazza Currò, un ragazzino in canottiera, gambe lunghe e sottili, gioca con il fratello più piccolo. Sotto, le rovine del teatro romano, chiuso da recinzioni, è un parco divertimenti per nugoli di gatti che si inseguono.
Catania irrequieta, Catania dalla doppia identità. Forse sì, per il viaggiatore che vi giunge la prima volta. A partire dai colori, pietra lavica in quantità nei marciapiedi e negli stucchi, e fuliggine etnea annidata sotto i tetti e sui muri, contrastano con l’azzurro intenso del mare, il verde delle palme e dei ficus benjamin, e il rosso e il blu degli imperanti striscioni “Forza Catania”. Si respira aria felice, ma il paesaggio urbano parla di qualcosa di amaro.�
Uscire per un attimo dalle piazze centrali e salire verso nordest è un buon modo per adottare una visuale appena più ampia: una strada su tutte sembra racchiudere l’emblema della città-contraddizione: via Crociferi, trionfo del Barocco. Fu la reazione della città al disastroso terremoto del 1693. In mezzo alla strada, chiusa al traffico, girano la scena di un film: alcuni ragazzini devono inscenare una partita di pallone e lo fanno con grande agonismo e trasporto, per la soddisfazione del regista. Via Crociferi si chiude con il giardino di Villa Cerami, sede della facoltà di Giurisprudenza. Qualcuno studia all’ombra delle palme, un’oasi di silenzio nel caos del centro. Basta salire un poco oltre la villa e tra i tetti si riconoscono le vie, i palazzi, le chiese. Il Castello Ursino, la chiesa della Collegiata, il Duomo, il convento dei Benedettini, monumenti presenti in ogni guida.
Il vento settentrionale strappa all’Etna banchi nuvolosi che attenuano la calura, ma non bastano per asciugare l’aria intrisa di umidità. Meglio ridiscendere le scalinate, a tratti impervie, un menu scritto al computer, appeso in una cornice di legno alla porta del ristorante, elenca cous-cous vegetariano, pasta al pesto con mandorle e formaggi piccanti. Di nuovo il cibo ricorda la duplice faccia della città-porto ai piedi della montagna. Adesso una mappa di Catania può essere più utile. La predominanza di una maglia ortogonale è testimone di una ricostruzione massiccia, in risposta alle devastazioni di terremoti ed eruzioni. Un impianto oggi molto diverso dall’antica Katane, rimodellata nei secoli per specchiarsi su stessa, come vuole la scenografia barocca.
Se da una parte ridurre Catania al mare e all’Etna sarebbe scontato, è forse un buon punto di partenza per comprendere l’indole della seconda città siciliana, un carattere estroverso e chiaro come le giornate luminose della sua estate lunga, quanto misteriosa, e orgogliosa, come l’oscurità della sua notte illuminata da lampioni fiochi, che non bastano a far riflettere le facciate laviche delle vie.�
«Catania è più bella di Palermo. Anche se a Palermo non ci sono mai stato», dice il giovane barista in via Cardinale Dusmet, tornando verso la stazione. Ha gli occhi chiarissimi, un viso smunto pallido a dispetto dei concittadini, e la camicia bianca con maniche larghe e troppo lunghe, un po’ sporca. L’ultima conversazione, sconnessa, è con lui: «Il Catania ha fatto un gran bel calcio-mercato. La mafia esiste dappertutto, l’importante è l’anima delle persone e la festa di Sant’Agata».

Lorenzo Pini

La foto n.5 è stata tratta da: http://www.flickr.com/photos/remozolli/

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