Art Verona: senza sguardo e senza anima?

Una visita tra le pareti mobili della fiera d’arte contemporanea e moderna che negli ultimi anni ha luogo nella città di Verona. Passeggiando tra le opere di artisti affermati e non, menzioni al Premio Aletti e nuove scoperte, fiori all’occhiello di galleristi provenienti da tutta Italia, si incontrano miraggi ma anche interessanti punti di vista.

Alla quinta edizione di Art-Verona non si entra dalla solita porta principale. Potrà sembrare una sciocchezza, ma sembra che cambi entrare dalla porta re Teodorico, a lato, giù in fondo. Molto più piccola e discreta, con installazioni di massi chiari chiusi in gabbia, tristi, soli ed abbandonati prima dell’acquisto di un biglietto.
Una scultura di Marc Quinn ispirata a Guerre Stellari accoglie i visitatori in un piazzale di cemento semi deserto. L’autore ultimamente spopola; in città lo conoscono tutti.
Tra tanti personaggi vestiti di nero – sembra che sia il tema ricorrente di anno in anno – mi avventuro alla ricerca di opere da osservare.
Da vedere c’è fin troppa roba. Sì, roba.
Oggetti incandescenti di notorietà e smalti vistosi e brillanti che attirano per la loro grandezza e che, spesso, da vicino, deludono. O non sono capaci di farsi ricordare.
Molte facce note affollano le pareti bianche e provvisorie, e le pagine dello spesso catalogo con la scritta fucsia; vengono riproposti vecchissimi temi figurativi che si confondono con la decorazione d’interni perché incapaci di far emozionare. Freddi androidi del mercato economico.
Mi fermo, mi avvicino, faccio per toccare e ritraggo la mano reprimendo un istinto vietato.
Torno sui miei passi e vado oltre; mi viene da ridere guardando installazioni multimediali create per stupori a breve termine.
Mi ritrovo davanti ad una galleria d’arte, si chiama Goethe 2, di Bolzano, le cui parete bianche sono, come per magia, rese ancor più fragili ed immacolate da dei disegni leggeri; questa impressione solo da lontano.
Mi avvicino per curiosità, voglio scrutare i particolari di un’opera che, con pochi tratti, riesce a non confondersi con l’intonaco asettico.
Una leggera presenza grafica con turbinii corporei ed organici, intinta in drammi psicologici ed esistenziali.
Tamara Ferioli crea con le sue opere un’ode all’enkefalina utilizzando come strumenti i capelli e il vino, tra le altre cose.
Origami che vogliono ma non possono essere veri organismi naturali, capelli rossicci che confondono, si aggrovigliano, tengono legati come uno spago con un palloncino e fanno da filo conduttore per non farci perdere nel candore di carte fragili.
Il segno che scavalca il riquadro originario e stabilito per andare ad importunare e punzecchiare il riquadro successivo, segni che si fanno inseguire con lo sguardo per essere sicuri che davvero finiscano da qualche parte.
Richiami critici a Milan Kundera per la leggerezza; un muto dolore ed un viaggio onirico in cui si è accompagnati, senza essere presi per mano, da ovali senza volto e senza sesso.
Senza volto, senza sguardo e senza sesso sono anche i pedoni di Roberto Barni; nessuna comunicazione diretta con l’anima in mancanza di occhi. Camminano senza sosta e senza dichiarata personalità, indossando vestiti anonimi e sempre uguali.
Sono uomini flebili ma matericamente nervosi e contorti.

Una scultura in mostra, unica, solitaria, al centro di uno stand, della Galleria Poggiali e Forconi di Firenze, in cui prevale una pittura figurativa.
E questo individuo, su cui camminano, come insidiose formiche, repliche di sé in scala ridotta, sembra quasi capitato lì per caso, come se il suo viaggio verso meta ignota, o indifferente, l’avesse portato in quel preciso luogo per farsi ammirare un po’. Per fare domande a cui lui non può rispondere. Non è capace, non è suo compito. Ma può aiutare a dare delle risposte, quello sì.
Muto e mite o, forse esplodendo freneticamente nella sua arrendevole staticità, dice molto di più di quanto non si voglia sentire.
Perché è possibile, a volte agghiacciante, riconoscersi in un “senza meta”.
Mi faccio trasportare senza meta ancora per un po’ tra i padiglioni, desiderando un tappeto volante in cui caccia tigrati ed elicotteri planano “arcobalenei” sulla poetica di Daniele Nalin; opere pittoriche frammentate in quadrati di cui appaiono solo i contorni e che sono popolati da personaggi delle serie dei cartoni animati in colori accecanti e veicoli volanti che percorrono, veloci, idealmente tutte le tele dell’autore.

Luci ce ne sono anche, ma se non fosse per quelle poche che rincuorano nel buio che, personalmente, fa paura, sarei tentata di proporre agli enti incaricati di cambiare il nome in Art-trite.

Katia Bonini

Click Here to Leave a Comment Below