Biennale di Venezia

Giovanni Penone: sculture di linfa al Padiglione Italia

Alla Biennale di Venezia, dopo otto anni di assenza, l’Italia torna ad esibire un suo padiglione dedicato, simbolo della propria espressione nazionale. Uno spazio definito, ben delimitato, in cui poter presentare i propri artisti più significativi potendo così dialogare con le altre nazioni invitate all’esposizione internazionale. Si tratta di un magazzino ottocentesco edificato per contenere carbone per il rifornimento delle navi che all’epoca salpavano dall’arsenale veneziano. A testimonianza della sua originale destinazione d’uso vi sono ancora le rotaie su cui correvano i vagonicini di carbone che, pur quasi completamente annegate nel nuovo pavimento, dichiarano a gran voce la loro funzione. Varcando il grande portone (di nuova fabbricazione e rivestito in ferro corten per colorirlo di un po’ di anzianità) si entra in uno spazio fortemente vissuto e sintesi di diversi materiali ben in sintonia tra loro: pavimento costituito da cemento (di recente manifattura), di tozetti e assi di legno (quelle originali); le pareti in mattoni faccia vista macchiati dal tempo, dall’umidità, dalla storia, qua e là sbriciolati, sbeccati. Il soffitto è un intreccio di travi in legno irregolari rese solidali da moderni tiranti in ferro e da un’orditura minore di travetti e larghi mattoni. I colori nell’insieme si presentano caldi, quasi pastosi e la luce alogena puntiforme anestetizza l’ambiente ponendo l’accento su alcuni volumi, su pochi dettagli.

E proprio su due grandi volumi cade il mio sguardo una volta varcato il portone. Dopo aver abituato l’occhio per qualche secondo alla nuova intensità luminosa la mia attenzione ricade immediatamente su due lunghi tronchi sdraiati sul pavimento di assi lignee. É l’inizio dell’installazione di Giovanni Penone, scelto a rappresentare l’Italia con i suoi quarant’anni di “esperienza sul campo”. L’opera ideata da Penone si suddivide in due diverse stanze legate da un unico filo conduttore, simbolo di un sapiente intreccio concettuale tra vita umana, animale e vegetale legate tra loro da energie, profumi e sensazioni. Mi addentro nel progetto-installazione per meglio capirne la struttura tanto affascinante quanto misteriosa.
L’artista ha scelto due larici secolari sottraendoli dal loro ambiente, ponendoli orizzontali e lavorando la loro “pelle”. Ha infatti rivestito la corteccia con pelli animali, un atto simbolico che evoca l’azione umana di avvolgere l’albero con la propria pelle. Il contatto, l’azione genera volumi: fa nascere scultura.
Tra il tronco e le pelli interviene l’uomo, lui, l’artista che con il suo agire crea l’evento. La sua energia lavora la pelle, la bagna, la stende sul tronco, la sagoma sulla corteccia, la inchioda e crea un tutt’uno, opera d’arte. L’albero, non più albero, si fa altro da sè e diviene arte per volere dell’uomo. Questi Alberi di cuoio convogliano le nostre energie di spettatori attoniti di fronte ad impreviste alchimie. Le nostre sensazioni visive, tattili, olfattive sono coinvolte totalmente, ribaltate, rielaborate. Ci costringono a metterci in discussione davanti al mutare degli oggetti, a riflettere sulla natura delle cose. Perché l’albero è albero? Cos’è che conduce la nostra mente a questo  concetto?

Varco la soglia della seconda stanza lasciandomi le due grandi sagome orizzontali alle spalle. Vengo catapultata in un’altra dimensione legata alla precedente per i materiali (cuoio e legno) e i colori (il marrone delle pelli ricorda quello del tronco degli alberi), ma così diversa concettualmente. La stanza è sostanzialmente una scatola le cui pareti sono state rivestite con più di cento pelli. I loro bordi sono stati regolarizzati e la loro nuova forma rettangolare ricorda tele d’artista, fogli su cui dar vita a nuove opere. Ma la loro superficie non è più liscia ma ruvida, solcata dai calchi in negativo della corteccia dei larici posti nell’altra stanza, ancora una trasformazione avvenuta grazie all’intervento dell’uomo che fa emergere con il suo fare l’altro, l’essenza. I vuoti sulle pelli segnalano la presenza di forme, materia che con la sua “assenza” è più presente che mai generando un sottile gioco di rimandi. Il pavimento è composto da bianche lastre di marmo di Carrara (Pelle di marmo) su cui Penone ha inciso la sagoma della corteccia cerebrale contenuta nella scatola cranica, così come la corteggia dell’albero contiene il tronco stesso. E sono i miei piedi che leggono il bassorilievo….ancora il vuoto segna la presenza. La scultura si fa multisensoriale: i miei occhi intorno leggono la ruvidità ed il calore delle pelli appese e le mie “piante” dei piedi (ancora la figura dell’albero che ritorna!) seguono le linee incise sul pavimento freddo e rigido. Mi muovo  come se fossi sangue che irrora il cervello girando intorno ad un altro grande tronco sdraiato a pavimento (Scultura di linfa) e nel quale Penone ha scavato in negativo la  sagoma dell’albero (ancora il vuoto, l’assenza che dichiara la presenza). Questo vuoto è stato riempito di resina (il sangue dell’albero) solidificata come quando il sangue si coagula per rimarginare un trauma, una ferita. E la mia mente si sofferma inevitabilmente a ragionare sulle analogie tra uomo e natura appartenenti ad un unico sistema, così diversi eppure così uguali.
Concludo il mio viaggio, la mia esperienza in questo spazio ricolmo di concettualità leggendo ciò che l’artista ha scritto della sua opera:

Sculture di linfa

“Spazi coperti dalle mani,
spazi svuotati dalle mani.
Lo spazio della scultura riempito di linfa.
Il flusso della mano che scorre sulla corteccia degli alberi, che rivela la forma del legno e le vene del marmo”.
Giuseppe Penone

Le parole si susseguono e si spiegano da sole, rimbalzano nel mio cervello……nella mia corteccia…….

             Elena Sandre

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