Una stanza allo specchio

Virginia Woolf spiata dalla cucina
Romanzo della “periferia”, strutturato su fondamenta costantemente binarie, Una stanza tutta per gli altri ( di Alicia Gimènez-Bartlett. Sellerio Editore, 2003) non è mera visione decentrata, dalla porta della cucina, di Virginia Woolf e del gruppo di Bloomsbury.
Vantando la propria abilità di autrice di polizieschi mozzafiato, la scrittrice spagnola anatomizza il rapporto tra la madre della Signora Dalloway (opera del 1925 che portò la Woolf al successo) e la cuoca Nelly Boxall, che servì in casa Woolf dal 1916 al 1934. L’ eccentrica analisi ( nel senso letterale dell’aggettivo) sviscera una complessa, a volte morbosa, dialettica servo-padrone, danzata reiterando un valzer di pace-guerra-tregua, sino al definitivo addio.
Sancho Panza, scudiero basso e pingue, è il latore della realtà che si esprime per proverbi popolari; davanti a lui l’hidalgo della Mancia, l’uomo della follia che parla il linguaggio cavalleresco dei romanzi che lo appassionano, cavaliere dalla triste figura alta e smilza. È noto a tutti come servo e padrone nel Don Chisciotte siano, in effetti, le due facce di un’unica medaglia, l’uno estensione dell’altro. Parimenti, Nelly Boxall risulta essere una sorta di prolungamento di Virginia Woolf. In realtà, dal diario della cuoca, emerge un’assoluta influenza reciproca tra gli abitanti dei salotti e quelli delle cucine, spesso sfociando in una sorta di identificazione da parte dei secondi. E presumibilmente è proprio questa dialettica, quest’incessante scontro sia sul piano personale che su quello ideologico, che mette fortemente a disagio le due donne, conducendole inevitabilmente ad una reciproca intolleranza. D’altra parte, specchiandosi in Nelly, Virginia non può evitare di autosmascherarsi, cogliendo lucidamente la contraddizione insita in sé e nel suo circolo: propulsori di egualitarismo e femminismo eppure incapaci, nel quotidiano, di svincolarsi dalle catene (evidentemente non così insopportabili) della classe borghese in cui sono profondamente radicati. Così, sullo sfondo della Prima Guerra Mondiale, Nelly si preoccupa del necessario, alla prese coi lauti pasti richiesti dai padroni nonostante la penuria attanagli il paese. Frattanto i Woolf si preoccupano di “condurre la solita vita“,  persino ricevendo “molti ospiti, che come sempre inasprivano l’umore di Nelly” ( la quale, come una moglie frustrata, minaccia costante la signora di andarsene per poi automaticamente cambiare idea).
Dal canto suo, la cuoca ha diversi e palesi motivi per non gradire l’immagine rimandata dallo specchio-Virginia. Ma possiamo pensare che quello meno evidente sia in effetti il più incalzante: il senso di perdita di identità. Rivelatrici sono le parole rivolte alla collega Lottie “È stata questa gente, Lottie. Il giorno in cui siamo entrate a loro servizio la nostra vita è andata a rotoli per sempre. […] Lo capisco, fa’ come vuoi, ma io, te lo ripeto, non tornerò a lavorare per nessun Bell o Woolf, per nessuno che abbia minimamente a che fare col gruppo di Bloomsbury. Preferirei morire di fame piuttosto”.  Ai suoi occhi “questa gente” è colpevole di averle rovinato la vita, entrandovi di prepotenza e cercando di annichilirla. Unica soluzione auspicabile è l’allontanamento. Unica via di salvezza è la fuga, evitando in tal modo d’essere inglobata definitivamente.
Cionondimeno, la stessa Nelly mostra sensibili contraddizioni: osservando “la signora”, malgrado l’insofferenza e le conseguenti critiche, non può far a meno di provare slanci di ammirazione ed invidia, che non di rado si traducono in spirito emulativo.
Una stanza tutta per gli altri è dunque il romanzo della incoerenza nonché dell’incompatibilità, da qui la scelta di un titolo tanto polemicamente speculare all’opera manifesto della Woolf (Una stanza tutta per sé; 1929). Titolo che mette in luce chi una stanza sua non l’ha mai avuta, costretto, per sopravvivere, a dimorare in una stanzetta “concessa” nella casa dei padroni.

Silvia Blakely

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