Tibet, protesta estrema: i monaci si danno fuoco
Dieci monaci (ben sei in ottobre), tra cui una donna, si sono immolati come torce umane contro il dominio cinese. Denuncia di Amnesty International. Pechino: «È il Dalai Lama ad istigarli». Democrazie occidentali ed organizzazioni internazionali oscillano tra diritti umani e “realpolitik”.
Dawa Tsering, 31 anni, si è immolato dandosi fuoco durante una funzione al monastero di Kardze, invocando il ritorno del Dalai Lama e libertà per il Tibet.
È l’ultimo dei dieci monaci che, dal mese di marzo, hanno tentato di morire dandosi fuoco.
Prima di lui, già cinque hanno raggiunto il loro intento. Tra i quali, per la prima volta, una monaca di circa 20 anni, Tenzin Wamgmo. La giovane religiosa si è data fuoco nei pressi del suo monastero, nella provincia sud occidentale del Sichuan, teatro di quasi tutte le “immolazioni”.
La Cina ha reagito inviando oltre venti mila agenti nella zona per un “programma di rieducazione”, distribuendo bandiere e immagini dei leader cinesi.
Pechino indica il Dalai Lama come responsabile di queste morti, descrivendolo come “un lupo travestito da agnello”, che vuole dividere il Paese. In realtà, ormai da tempo, il Tibet e lo stesso Dalai Lama chiedono soltanto un’autonomia interna e la salvaguardia dell’identità culturale e religiosa.
A Dharamsala, la città dove è esiliato, il Dalai Lama ha tenuto una giornata di preghiera e digiuno per coloro che si sono immolati.
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D’altra parte, varie autorità tibetane osservano che il suicidio è contrario alla loro fede e che il gesto di questi giovani monaci è una risposta disperata alla repressione cinese.
Sul versante umanitario, Sophie Richardson, direttore di Human Rights Watch, ha dichiarato che «le misure di sicurezza intese a ridurre la libertà di espressione, associazione e credo religioso nei monasteri in Tibet non sono legali. Ancora peggio, rischiano di esacerbare le tensioni» e ha chiesto la fine immediata della repressione.
Amnesty International si è rivolta al governo cinese chiedendo di porre fine alle varie pratiche repressive e di rispettare il diritto dei tibetani alla pratica della loro religione e cultura.
Lobsang Sangay, capo del governo tibetano, ha invocato l’intervento diplomatico esterno: «Facciamo appello alle Nazioni Unite, ai pesi amanti della libertà e a tutte le genti del mondo perché mostrino sostegno e solidarietà con il popolo tibetano in questa fase critica. Data la legge marziale non dichiarata in Tibet e i crescenti casi di autoimmolazione, la comunità internazionale deve fare pressione sul governo della Repubblica popolare cinese». Appello destinato probabilmente a cadere nel vuoto.
La Cina è oggi “la” superpotenza: un colosso che le altre nazioni trattano con i guanti.
Tra i governi occidentali le logiche della “realpolitik” prevalgono sulla solidarietà umanitaria.
Anche per gli Usa. A suo tempo, l’esplosione del debito americano fu assorbita da Pechino che acquistò quantità ingenti di buoni del Tesoro statunitensi.
E nella crisi che oggi scuote le economie occidentali, con le istituzioni bancarie e politiche dell’Europa pronte a srotolare il “tappeto rosso” agli investimenti cinesi, fare la voce grossa con Pechino sui diritti umani è un lusso che non ci si può permettere.
Stefano Tozzi