
Haiti a due anni dal terremoto
Due anni di cooperazione per la ricostruzione di Haiti, dopo il terremoto del 2010, stanno portando reali benefici al Paese? Se la risposta è affermativa, non tutto è andato per il meglio. (Foto: © Giulia Giudici)
Ventiquattro mesi dopo il sisma che distrusse l’intero Paese dei Caraibi, i fondi disponibili sono circa metà di quelli promessi e l’impressione è che quelli che mancano difficilmente arriveranno sull’isola. C’è la crisi, ci sono altre priorità, non c’è più la pressione della stampa; insomma, Haiti interessa ormai a pochi. I finanziamenti, poi, sono legati a due linee di gestione: una che passa direttamente per il coordinamento delle ONG, l’altra che gode della mediazione del governo haitiano. Questa seconda linea, la più corretta istituzionalmente e la più ricca di fondi, ha però il forte handicap dell’instabilità politica che vede il presidente Martelly inadeguato a gestire l’emergenza, e un Parlamento guidato da un partito avverso al suo che ha reso impossibile l’insediamento di un governo fino all’autunno scorso. Morale: pochi fondi e di difficile accesso.
All’indomani del sisma si stimava in una decina di anni il tempo necessario per riportare Haiti alla situazione pre-terremoto (che era quella dello Stato più povero delle Americhe), ma ora anche quell’obiettivo sembra allontanarsi.
Oggi, per le strade di Port-au-Prince è più facile incontrare bianchi stranieri che haitiani: non sono né turisti né immigrati, sono i cosiddetti cooperanti. Sembra quasi che in questo Paese coabitino due popoli: quello haitiano, di origine africana, e quello della cooperazione, con radici internazionali. Che sia la tragedia del terremoto o quella dell’epidemia di colera, un più o meno previsto uragano o una altrettanto prevedibile rivolta post-elettorale, sembra che non esista alternativa all’intervento invasivo degli aiuti internazionali.
Sicuramente i cittadini stanno traendo benefici dai progetti avviati, ma spesso le ONG si dimenticano degli effetti collaterali della loro presenza. Non possono passare inosservate le centinaia di inserzioni che appaiono quotidianamente sui giornali locali. Croce Rossa, MINUSTAH, UNDP e molte altre ONG, per lo più statunitensi e canadesi, cercano collaboratori, referenti, staff manager con stipendi che possono arrivare a 2.000 $. In un Paese abituato a vivere con meno di due dollari al giorno, è uno sconvolgimento che non può non lasciare il segno.
I costi degli affitti sono più che triplicati, così come quelli del cibo, ma soprattutto si è verificata un’impennata del mercato salariale. Una delle mansioni più ricercate è quella del traduttore e gli haitiani, attratti dai forti guadagni immediati, non hanno esitato ad abbandonare i ‘vecchi’ lavori in banca o nelle scuole per lanciarsi nell’avventura internazionale. Con la conseguenza che banche e scuole haitiane si sono svuotate di personale.
Il 12 gennaio 2012 Port-au-Prince si sveglia con quasi un milione di sfollati in meno, ma altri 500.000 continuano a vivere in tende ormai ridotte in condizioni pessime nella speranza che una qualsiasi istituzione straniera arrivi, ancora una volta, a tirarli fuori dalla loro indigenza.
Per le vie di Port-au-Prince i segni del terremoto sono tuttora evidenti, più ancora quelli di una promessa di ricostruzione ad oggi non mantenuta.
Giulia Giudici