Ritratto di abitante con città
C’è qualcosa di magicamente grigio e melanconico che traspare dai visi delle persone che passeggiano tra le vie lastricate di Istanbul, la città meticcia, metà europea e metà asiatica.
i pescatori affacciati dal ponte di GalataLa fisionomia dell’abitante maschio di Istanbul sembra uscire dal mondo delle favole: folti baffi, naso pronunciato, sopracciglia scompigliate e lunghe, occhi acquosi da mare. Berretto calcato sulle orecchie e cappotto fino a metà polpaccio se non alle caviglie.
Osservando questi individui si può probabilmente imparare molte cose sul luogo che si sta visitando: le rughe e la pelle secca raccontano più di un manuale e i loro sguardi, rivolti verso l’orizzonte, sono forse il segno più chiaro della difficoltà di vivere barcamenandosi tra due culture differenti; ci sono delle definizioni per queste peculiarità: le abitudini si distinguono tra alaturka e alafranga. Qualsiasi guida potrà sommariamente riassumere tutto questo con un sbrigativo: alaturka sono le toilette tradizionali, i baffi, il mangiare seduti su cuscini con grossi piatti di rame mentre alafranga sono la carta igienica, la stretta di mano e le frittate.
Istanbul conta all’incirca dodici milioni di abitanti e tutti, volenti o nolenti, hanno la salsedine addosso e la voce coperta dallo stridio dei gabbiani.
Tra i ristoratori insistenti, si salgono viuzze inerpicate tra i sette colli e si incontrano avventurieri, mercanti, marinai che paiono custodire segreti indefinibili.
Vecchi che suonano baĝlama, altri che commerciano galline e conigli nani. Giovani che vendono cozze di dubbia provenienza, spremute d’agrumi e melograno improvvisate con strumenti simili a cric delle automobili.
Uomini dall’età ignota si piegano in due sotto carichi che sfiorano, e a volte superano, i cinquanta chili. I facchini oscillano pericolanti come tanti degli edifici che sporgono paurosamente ai lati delle strade.
Pare circolino storie curiose su imprese mirabolanti, tra il vociare degli avventori che sorseggiano çay. Servito in bicchierini – lo stesso servizio accomuna la maggior parte dei locali – e accompagnato a due zollette di zucchero, questo tè scandisce, insieme al muezzin, la giornata di tutti gli abitanti.
Solo i cani e i gatti randagi, che circolano numerosi tra i sampietrini, sembrano non prestare attenzione a questi rituali.
Si racconta che durante la Repubblica di Ataturk i canini furono esiliati in un’isola ma poi il piano si rivelò fallimentare e i poveri animali ritornarono in città.
La scaramanzia riveste un ruolo di tutto rispetto nella vita quotidiana: camminando per le stradine che si intersecano a Istiklal Caddesi ci si imbatte in occhi di pasta di vetro compressi nel selciato; e ancora, questi occhi, sotto forme differenti – orecchini, collane, lampade, stampati su tessuto – si presentano ovunque, anche nelle case private. A quanto pare nessuno è davvero immune al fascino di questo souvenir dai poteri magici.
Si narra anche che nel diciassettesimo secolo un uomo riuscì a volare dalla torre di Galata fino all’altra parte del Corno d’Oro; il sultano lo premiò con una moneta e poi lo fece immediatamente esiliare perché spaventato da questa inusuale capacità.
Antiche case signorili di legno fanno compagnia alle nuove abitazioni popolari, alcune in lamiera, altre in cemento, e salutano, scricchiolando umide, il passaggio dei traghetti – che tanto ricordano Braccio di Ferro – e di alcune, seppur rare, navi da guerra.
In attesa dell’otobus di mareUna leggenda racconta che all’alba è possibile intravedere dei sommergibili passare silenziosi sotto al ponte di Galata, tra le lenze addormentate dei pescatori che si scaldano le ossa con pezzi di legno accesi con benzina in grossi bidoni.
Sono lontani questi tempi magici? Sembrerebbe, affacciandosi dalle ringhiere del piano superiore del Hagia Sofia e udendo lo starnazzante rumore dei turisti, impegnati più a fotografare che a vedere. Nonostante i cartelli ricordino che ci si trova in un luogo di culto, i commenti non risparmiano neppure la sacralità della maestosa Moschea Blu. Solo i tulipani intrecciati di filo sui tappeti rimangono muti e rivolti verso la Mecca.
Ciò che però mantiene intatta la suggestione del passato è la magnifica Yerebatan Saray, dove enormi pilastri vengono circuiti dalle carpe e dai pesci che vivono nella penombra di questo acquedotto antico, tra visi di Medusa capovolti ed occhi intarsiati.
Le mura in rovina della città, lontane dalle visite organizzate, sono lasciate sole; i resti di ciò che fu vigilano tristi e, come panorama, hanno vecchi palazzi malandati e un Trade Center in costruzione e fermento.
Solo attraversando i grigi – argentati – passaggi di questa metropoli così unica si può arrivare a comprendere l’attrazione che ha spinto così tanti scrittori ed artisti a dedicarsi ad essa. Saranno forse i lampioni obliqui, saranno forse i bordelli dove donne, talvolta cadenti e dalla biancheria usurata, si appoggiano agli stipiti delle porte e vengono oscurate da padroni sospettosi. Saranno i famosi bazar colmi di oggetti pacchiani e di spezie, saranno i dolci che colano miele dolce o le musiche e le danze dei dervisci rotanti – la cui grazia, ahimè, è al servizio delle agenzie del turismo – o i cimiteri, così simili a prati incolti e selvaggi.
Ma c’è molto altro dietro all’immagine da cartolina nostalgica: nuovi edifici sgomitano tra i pezzi da museo per respirare e dare vita a uffici, negozi di lusso aprono i battenti sopra il parco di Maçka, il traffico anarchico riempie i timpani e i polmoni in un caos che per nulla rassomiglia al lento affaccendassi dei muli che solo il secolo scorso occupavano le strade.
Io, nel mio intimo, credo che la meraviglia di Istanbul sia tutto merito dei personaggi dal passo molle e cadenzato che trascorrono la loro vita in questo luogo, rendendolo esattamente ciò che è.
Katia Bonini