
Libertà di culto e diritti civili a Cuba
A quattordici anni di distanza dalla visita di Wojtyla, un papa torna sull’isola di Fidel Castro per promuovere la libertà di culto. In questo periodo, tanto è stato fatto per migliorare l’immagine di Cuba ma le condizioni di libertà dei cittadini sembrano aver fatto pochi passi avanti. (Foto: Flickr cc Flippinyank)
Lo scenario di Plaza de la Revolucion, luogo deputato alle grandi manifestazioni del regime comunista e in cui si sono tenuti alcuni dei più famosi discorsi del Lìder màximo Fidel Castro, è decisamente suggestivo. Appena venti anni fa, nemmeno i più ottimisti avrebbero immaginato un papa cattolico celebrare messa in un luogo simile chiedendo maggiore libertà di culto per i cattolici del Paese. Quella di papa Benedetto XVI a L’Avana è un’immagine potente che può dare l’impressione che la condizione dei cittadini cubani sia molto cambiata rispetto agli anni più duri del regime castrista. Tuttavia quest’idea è destinata a rivelarsi fin troppo ottimistica.
Sul piano formale sono stati fatti indubbiamente dei passi avanti per quanto riguarda i diritti umani. Dal 1992, anno in cui ne fu redatto il nuovo testo, la Costituzione cubana riconosce e garantisce la libertà di culto, di espressione e di associazione. Inoltre, il fatto che Cuba non si definisca più uno stato ateo ma solamente laico, ha consentito a diversi ecclesiastici di ottenere la residenza sull’isola e di professare i riti della propria religione.
Le buone notizie, tuttavia, sono destinate ad interrompersi qui. Tali libertà fondamentali, diritti che nelle democrazie compiute sono considerati ormai scontati, sono, infatti, schiacciate dal peso dell’attività delle autorità, le quali esercitano uno stretto controllo su tutte le forme di associazionismo e di informazione, tanto da lasciare uno spazio pressoché nullo all’esercizio di un vero dissenso politico. E per chi ha tentato di opporsi alle regole del regime, la repressione ha colpito in svariati modi: dall’arresto al divieto di espatrio, dai processi penali ai licenziamenti per causa politica.
Il Partito Comunista Cubano è tuttora il solo a poter presentare i propri candidati alle elezioni dell’Assemblea Nazionale del Potere Popolare, organo pseudo-legislativo che si riunisce appena due volte l’anno. Anche ai massimi livelli – come dimostra la sostituzione ai vertici del partito e del Paese di Raul Castro, fratello di Fidel, avvenuta nel 2006 – la successione avviene in forma tutt’altro che democratica.
Alla mancanza di libertà politica si accompagna uno stretto controllo sull’informazione e l’istruzione. Quest’ultima è garantita ad ogni cittadino, ma è utilizzata come strumento di indottrinamento da parte di un sistema di istruzione che, come da tradizione dei regimi, racconta una sua personalissima reinterpretazione della storia.
Il controllo sull’informazione è poi estremamente rigido: sull’isola sono presenti numerose agenzie di stampa, quotidiani, periodici, emittenti televisive e radiofoniche, ma queste sono tutte di proprietà governativa e pertanto soggette ad un’intensa attività di selezione e censura. Stesso discorso vale per Internet, la cui fruizione è strettamente regolamentata. L’accesso al web, infatti, richiede la concessione di un permesso governativo speciale il quale consente un controllo pressoché totale sul traffico Internet.
In un Paese in cui persino l’esilio volontario appare una possibilità remota, questo stato di cose si traduce in una vita da carcerati a cielo aperto e né le parole dei due papi giunti in visita nell’ultimo ventennio, né le pressioni della comunità internazionale hanno avuto effetti tangibili sul regime castrista. Le libertà personali e l’esercizio dei diritti civili, conquiste fondamentali per un pieno sviluppo della persona, rimangono ostaggio della pretesa di un ordine sociale stabile da cui ai cittadini cubani sono derivati ben pochi benefici.
Alessandro Turco