
Bethel oltre l’anonimato
Il ricordo di Lowell rimane impresso nella mia memoria mentre, passando per Springfield, mi dirigo verso Bethel, dove si svolse il concerto più famoso della storia: Woodstock. Un paesino destinato all’anonimato riuscito a far parte della lunga storia americana. (Foto: © Francesco Longo; foto 2: Flickr cc dougtone)
È buio quando arrivo a Springfield, Massachusetts. Sono le nove di sera, la notte è scesa e, da quello che le insegne dei locali mi dicono, la città è già sprofondata nel sonno. I lampioni sono regolati su livelli luminosi notturni e mi indicano, quasi a fatica, la strada, durante la mia ricerca di un posto dove mangiare.
SpringfieldMi guardo intorno e mi sembra strano non vedere gente per strada come accadrebbe in una qualsiasi altra città europea. È una consuetudine alla quale mi devo ancora abituare e alla quale mi abituerò: fatta eccezione per le grandi metropoli, le città americane non hanno un grande culto per la vita notturna.
Rispetto all’Europa e soprattutto ai Paesi del mediterraneo, negli USA è difficile vedere gruppi di persone che affollano piazze e strade dopo il tramonto. Forse per la conformazione delle loro città, la cui struttura non contempla la presenza di piazze e luoghi di ritrovo all’aperto o forse semplicemente per via di uno stile di vita diverso dal nostro.
Le uniche persone che sembra vogliano sfidare la notte sono persone di colore e ispaniche, molto più simili agli europei in termini di abitudini. La mia ricerca del cibo finisce infatti in un fast food insieme a una famiglia argentina che cerca di capire da che regione italiana provenga il loro cognome.
Terminata la sosta per la notte, mi dirigo verso Bethel, un piccolo paesino nella contea di Sullivan, reso famoso dallo storico festival di Woodstock avvenuto nell’agosto 1969.
Un concerto che ha celebrato non solo la musica rock e i suoi grandi interpreti, ma che più di ogni altra cosa ha celebrato la generazione hippy e i suoi valori basati su pace e amore.
In quell’occasione quasi mezzo milione di persone si ritrovarono per assistere alle esibizioni dei più famosi musicisti dell’epoca e condividere insieme tre giorni di assoluta armonia e libertà.
Mi addentro nel paesino e resto stupito dal fatto che tutto intorno a me sembra sia rimasto come allora: le lunghe strade delineate da steccati, i grandi campi verdi e le case in legno dipinte di bianco sono le stesse che ho visto decine di volte nel film-documentario sul festival.
La cittadina è silenziosa, quasi spenta. Le attività quotidiane vengono svolte con calma, così come le auto sembrano non conoscere la parola fretta.
Non c’è nessuna traccia di negozi o attività che cercano di “sfruttare” l’immagine del festival per attirare i turisti. Guardandomi bene in giro mi rendo conto del perché: nonostante la bellezza e l’armoniosa tranquillità che si respira tra le comunità del paesino, Bethel non offre niente di più se non l’occasione di visitare il prato dove si svolse il concerto più famoso di tutti i tempi e il relativo museo: le uniche tracce di turismo si trovano appunto lì.
Mi dirigo quindi verso il “Woodstock site”: una grossa pietra commemorativa mi indica il punto esatto, i nomi delle band partecipanti e la data in cui si svolse il festival.
Mentre osservo il campo, appoggiato alla staccionata, alle mie spalle arriva un uomo che si offre di farmi delle fotografie.
Dopo le presentazioni di rito, il discorso cade inevitabilmente sul festival. Neil mi giura di esserci stato, mi racconta di come sia riuscito ad entrare senza pagare il biglietto indicandomi il punto dove scavalcò la recinzione. Nel suo racconto incontro molta malinconia verso gli anni passati e lui non fa nulla per nasconderla.
Mi dice: «Sai, quelli erano bei tempi, era una generazione in cui ci si voleva bene!».
Non posso immaginare come sia stato vivere quegli anni, sicuramente non posso dargli torto pensando che al giorno d’oggi volersi bene sembra sia quasi passato di moda.
Accendo l’auto mentre il sole inizia a tramontare e, osservandolo, non posso fare a meno di pensare che, seppur la generazione “in cui ci si voleva bene” è finita, questo non significa che con un po’ più d’impegno non possa risorgere.
Francesco Longo