Benni senza Benni

Una raccolta di racconti un po’ più di solitudine, ed un po’ meno di allegria

La Grammatica di Dio. Storie di solitudine e allegria“, pubblicato lo scorso Novembre  dalla collana I Narratori della Feltrinelli, è la ventottesima fatica del celebre scrittore bolognese. Eppure, in questa raccolta, quello che si legge è un nuovo Stefano Benni, uno scrittore di verità quasi esclusivamente drammatiche, moderne parabole spesso deprivate di ironia e sagacità. La stanchezza di un’umanità incattivita poiché triste e sola (o viceversa, in un circolo vizioso reiterato sino all’inconsapevolezza), è osservata sempre più da vicino; lo sguardo finale appare come filtrato da una spietata lente d’ingrandimento.
Innanzitutto, la Grammatica di Dio è la grammatica di un linguaggio schietto e scarno, il cui oggetto d’analisi è l’uomo moderno e la complessità in cui vive; in termini benniani, il “libro del mondo”. Il lettore si ritrova smarrito, dinnanzi ad una grammatica puramente descrittiva che si limita a dipingere con obiettività cruda (o crudele?) la realtà, rinunciando in partenza ad ornarla di spiegazioni tanto consolatorie quanto inutili (e in un certo senso questo silenzio da parte dell’autore è speculare al volontario mutismo del protagonista di Frate Zitto, quindicesimo racconto). Ma, soprattutto, il concetto di grammatica, come chiave di lettura dell’opera, riferisce a infinite grammatiche, vale a dire ai molteplici linguaggi del reale a cui (più o meno inconsciamente) l’uomo rinuncia, rimanendo imbrigliato in una quotidiana comunicazione fittizia ed imbevuta di clichès. E qui la traslazione viene naturale: il messaggio che plasma e collega le diverse novelle è la denuncia di una società dove persino il sostrato delle relazioni umane è costituito da stereotipi acritici; l’essere  umano vive rinchiuso in una simbolica gabbia le cui sbarre si chiamano convenzioni e la compagna di prigionia solitudine.
Attraverso i venticinque racconti, si dispiega un invasivo smascheramento del reale. Ed è proprio questa nudità che mette a disagio il lettore, probabilmente perché costretto ad osservare da troppo vicino l’altrui nudità e, ciò che più conta, la propria. Così, in più d’ una di queste moderne parabole, Benni da l’impressione di aver perso il proprio proverbiale umorismo. Con un’impostazione per lo più triste e disillusa, il libro, specchio implacabile della contemporaneità, rischia di ridursi a un mero senso del drammatico privo di appigli. Il rischio è che il lettore si senta aggredito e poi gettato negli abissi di una rassegnata e stanca solitudine, privato del tradizionale paracadute benniano: il riso, per quanto amaro. Il quesito amletico è: trattasi effettivamente di perdita o di cosciente abbandono?
Non potrebbe essere che questo astrarsi dell’autore coincida con una precisa volontà di risveglio delle coscienze? Allora, saremo tutti invitati ad essere lettori attivi, a non adagiarci sul paracadute del sorriso amaro, bensì a scovare nuovi salvagente e, perché no, soluzioni pratiche.
Il linguaggio è semplice. Il tono, scorrevole e dinamico, risulta pacato e dimesso in taluni racconti ( storie di tragica solitudine più che di allegria, ove persino la morte è sola; basti pensare a titoli quali Boomerang, L’istante, L’indovina). Altrove la narrazione si risolleva attraverso efficaci tableaux della società odierna; scoppietta di pungente ironia (si legga Mai più solo) e di spunti di riflessione sull’umanità composita e sullo sconsolante comun denominatore quale è la solitudine dello sterile individualismo contemporaneo ( esemplari Frate Zitto e Carmela).
Infine, molto interessante in quest’ottica è l’illustrazione in copertina di G. Palumbo, dal sapore vagamente romantico: se l’uomo del Romanticismo si sentiva smisuratamente piccolo e limitato in contemplazione del sublime, identificato con paesaggi vasti e aggressivi, nel caso de La grammatica di Dio, la limitatezza umana coincide piuttosto con l’osservazione di un paesaggio indecifrabile e della solitudine più opprimente in una tale vastità.

Silvia Blakely

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