Pompeiani per un giorno

Tra le botteghe, le cucine e le strade dell’antica Pompei si viene quasi trasportati indietro nel tempo, fino ai giorni in cui questa era ancora una città prospera e ricca di vita; tornati a casa si ha quasi l’impressione di aver vissuto un vivido sogno.

Scale dell’anfiteatro di Pompei

L’ ingresso agli scavi di Pompei dà la forte sensazione di essere in visita in un museo all’aperto: cartelli di ogni genere avvisano sulla sorveglianza delle telecamere, sugli orari di apertura e chiusura; un’ordinata fila di cestini per i rifiuti dà ai visitatori l’ultima possibilità di liberarsi di cartacce e residui di un eventuale pranzo al sacco. Al termine del viale che dà accesso all’antica città si intravedono finalmente le prime rovine; è l’antico anfiteatro, luogo di incontro ed intrattenimento per le persone che qui vivevano quasi duemila anni fa. Comincia da qui la mia esplorazione delle rovine, in un piacevole silenzio, reso ancor più intenso dalla scarsa affluenza di turisti in questo periodo. Non è possibile avere accesso all’interno della struttura, probabilmente a causa di lavori di manutenzione, ma l’esterno è altrettanto stupefacente. Mi fermo ai piedi di una delle rampe di scale che si addentrano nel teatro, sostenute da grandi arcate di mattoni. Penso agli abitanti, ancora ignari del terribile destino scritto per loro, in attesa proprio qui, dove mi trovo io, a chiacchierare, ridacchiare, magari anche spettegolare prima di assistere agli spettacoli. Imbocco una delle strade dell’epoca che mi porta verso il centro di uno dei primi quartieri romani, così magicamente conservati. La fitta rete di stradine, vicoli e viali disperde rapidamente l’esiguo numero di visitatori, dandomi quasi l’impressione di essere totalmente solo; eppure l’atmosfera non sembra affatto spettrale. Tutto questo non dà assolutamente l’impressione di essere in una città ormai spenta; sembra quasi che tutto sia in attesa, come in un breve attimo di raccoglimento in memoria di quella terribile tragedia, prima che la vita torni a scorrere tra queste vie, ricca e rumorosa come duemila anni fa. Come si viveva in questa città? Dove si andava quando si aveva fame? E quando ci si voleva divertire?

Una bottega della città

Poco più avanti qualche risposta comincia ad arrivare. Anfore. Decine di anfore, alcune ridotte in cocci, altre praticamente nuove, poste sul pavimento di un piccolo edificio, al di là di un vetro protettivo. Si tratta di una sorta di “tavola calda”, dove gli abitanti potevano venire a gustare le specialità del luogo. Le anfore, infatti, erano utilissime nel conservare la freschezza dei cibi; per questo motivo, nelle cucine delle abitazioni, o dei luoghi di ristoro, venivano incastonate nella stessa struttura in muratura che faceva anche da banco di lavoro. Così accadeva anche nelle botteghe dei commercianti di cibo. Più avanti, infatti, arrivo di fronte alla bottega di un antico fruttivendolo.

Una strada di Pompei

Nella dieta dei Pompeiani di epoca romana la frutta era un elemento fondamentale, di solito gustata a fine pasto come accade oggi. Per renderne duratura la conservazione spesso i frutti succosi, come le mele o le pere, venivano essiccati e posti nel miele. Il miele era spesso usato anche per addolcire il vino, servito cotto con erbe aromatiche e zucchero. Ho quasi la tentazione di attendere l’arrivo del bottegaio ed assaggiare qualcosa… La principale fonte di proteine per gli abitanti era, invece, il pesce, e proprio a base di pesce veniva preparato uno dei condimenti più in voga nella città: il garum. Era questo un impasto ottenuto da pesce tritato, uova di pesce e di gallina e interiora di sardine che veniva poi fatto essiccare e fermentare per varie settimane…certamente meno allettante di frutta, vino e miele.  Non resisto e immergo la mano in una delle anfore incastrate nella cucina; è vero, l’interno è molto più fresco rispetto alla temperatura dell’ambiente.

Sbirciando…

Continuo il mio giro tra le mura delle case pompeiane, alcune ridotte a pochi mattoni, altre ancora quasi totalmente in piedi. In una di queste pereti vi è una piccola breccia; mi abbasso per sbirciarvi e vedo un antico tavolino in marmo al centro di quello che deve essere stato un tempo il giardino di una grande villa.  Mi sento quasi in imbarazzo, come se stessi davvero spiando qualcuno che tuttora vive qui. Ancora una volta mi torna la profonda sensazione di trovarmi in una città viva e vegeta. Un gruppetto di turisti mi trasporta di nuovo nel ventunesimo secolo. Sono tutti incuriositi da un edificio alle mie spalle. È uno dei circa venti postriboli (o lupanares) dell’antica città; “ecco uno dei modi in cui si divertivano”, mi viene da pensare con un pizzico di malizia.

Un affresco pompeiano che illustre la colorazione del tessuto

Mi reincammino alla ricerca di qualche testimonianza degli antichi mestieri di quell’epoca. Trovo varie pareti con affreschi rappresentanti donne intente a tessere e colorare tessuti; all’interno ho l’occasione di vedere le grandi vasche utilizzate a questo scopo. I tessuti erano di enorme importanza per l’economia ed il commercio della città, così come lo era anche l’artigianato, che produceva stupendi oggetti di uso quotidiano, ma anche preziosissimi gioielli. Prima di avviarmi verso l’uscita, attraverso un giardino con qualche anfora adagiata a terra ed i resti delle strutture in legno intorno alle quali si avvolgevano i rami delle viti. Qui si produceva il vino, altra merce importante per i traffici marittimi pompeiani, ma anche per la cultura della città stessa. Quasi giunto all’uscita, poco prima di tornare fisicamente e mentalmente nel tempo che mi appartiene, intravedo in lontananza il Vesuvio. L’enorme, potentissimo responsabile della morte di questa città. D’un tratto la sensazione di trovarmi in quei giorni mi dà i brividi…

 

Davide Lepore

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