
L’Editto di Milano, una lezione antica (e moderna) sulla tolleranza
Nel 313 d.C., a opera dell’Imperatore Costantino, veniva promulgato l’Editto di Milano, che, basandosi su un principio di tolleranza, fermava le persecuzioni contro i cristiani e garantiva libertà di culto a ogni abitante dell’Impero. Oggi, a millesettecento anni di distanza, quanto lavoro abbiamo ancora da fare sulla tolleranza? (Foto: © Ufficio Stampa Electa)
Era il 313 e il Cristianesimo, fino ad allora culto clandestino, diventava una religione libera e riconosciuta, grazie a un editto promulgato dall’Imperatore d’Occidente Costantino e dall’Imperatore d’Oriente Licinio.
L’anno precedente, Costantino, prima della vittoria contro il rivale Massenzio a Ponte Milvio, aveva fatto apporre sugli scudi dei suoi soldati il Crismon, incrocio delle prime due lettere del nome di Cristo nell’alfabeto greco, segno della sua adesione al Cristianesimo. Fu grazie all’imperatore e a sua madre, sant’Elena, che la religione cristiana si diffuse con grande vigore negli anni successivi all’Editto.
Questa storia affascinante, e a tratti incredibilmente moderna, è ben raccontata nella mostra “Costantino-313 d.C.”, allestita a Palazzo Reale a Milano e visitabile fino a marzo.
Da allora sono passati esattamente millesettecento anni, ma il 313 d.C. ha ancora qualcosa da dirci, da insegnarci?
L’Editto di Milano non solo fermò le persecuzioni contro i cristiani iniziate da Nerone, ma garantì a ogni abitante dell’Impero una completa libertà di culto. Tutto il senso dell’Editto ruota intorno all’idea di tolleranza, cioè all’idea che «non si debba assolutamente negare ad alcuno la facoltà di seguire e scegliere l’osservanza o il culto dei cristiani, e si dia a ciascuno facoltà di applicarsi a quel culto che ritenga adatto a se stesso». Permette all’individuo di essere sincero con se stesso, di indagare la propria fede e di poterla manifestare all’esterno. Non solo di seguire una fede ma di “sceglierla” e di “applicarsi” a essa, di farne il fondamento della propria vita senza doverlo nascondere. Allo stesso modo impone a tutti di essere tolleranti verso le scelte degli altri.
Di fronte a questa storia di tolleranza, il pensiero va ai cristiani che ancora oggi, in troppe parti del mondo, sono oggetto di discriminazione e addirittura di persecuzioni; ma va anche alla nostra esperienza quotidiana.
Oggi la tolleranza è un principio ritenuto desiderabile dal senso comune e tutelato dalla maggior parte degli ordinamenti, almeno nel mondo occidentale. Ma questo basta per dire che la nostra è una società tollerante? Notizie di cori razzisti allo stadio o di aggressioni omofobe sono all’ordine del giorno, così come drammatiche storie di bullismo nei confronti di ragazzini ritenuti “diversi”.
Il lato peggiore di tutto questo è che l’intolleranza che fa notizia è solo la punta di un immenso iceberg a cui tutti o quasi contribuiscono.
Il nostro essere tolleranti non è affatto ovvio. Siamo intolleranti ogni volta in cui diamo per scontato che le nostre idee, i nostri gusti, le nostre abitudini e le nostre convinzioni siano le migliori in assoluto. Siamo intolleranti ogni volta che dimentichiamo che la Veritá esiste, ma non sta nelle nostre tasche, che la nostra vita è tutta una ricerca a tentoni di questa Verità, una ricerca che non tutti conducono allo stesso modo, ma che scaturisce dallo stesso immenso desiderio. Questo dovrebbe spingerci al dialogo e al confronto, non alla divisione, all’odio, alla violenza. Dovrebbe farci sforzare di essere tolleranti, perché, anche se a volte è difficile, è importante e necessario. Dovrebbe portarci a fare il possibile affinché, come chiede il filosofo Voltaire nella Preghiera che chiude il suo Trattato sulla Tolleranza, «tutte le piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati uomini non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione».
Deborah Bertelli