Se Steve Jobs fosse nato a Napoli
Una storia lieve, ma nello stesso tempo con un suo peso per la comprensione del disagio di molti giovani, spesso frustrati nella realizzazione imprenditoriale della propria inventiva. Il libro di Antonio Menna, “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”, ci fa sorridere con amarezza.
Antonio Menna, Se Steve Jobs fosse nato a NapoliSteve Jobs la sua mela l’ha saputa mordere fino a farla divenire un simbolo dell’immaginario collettivo. Infatti, me la trovo impressa sulla vetrina di un Apple store proprio mentre mi aggiro tra gli spazi dilatati di un non-luogo per eccellenza, un grosso centro commerciale. Sono alla ricerca della libreria, dove Antonio Menna sta per presentare il suo libro, “Se Steve Job fosse nato a Napoli”. Il romanzo è nato da poche righe pubblicate lo scorso autunno da Menna, giornalista e scrittore, sul suo blog. In esso, s’immaginava quali sarebbero potuti essere i possibili scenari per un giovane del Sud dell’Italia, intraprendente come lo Steve californiano ma costretto ad agire in un ecosistema sociale ben più problematico. Ora quel breve articolo, cliccato all’inverosimile su internet, è divenuto un romanzo nel quale l’idea originaria è germinata, sviluppando personaggi e situazioni. La libreria della presentazione si trova casualmente proprio accanto al centro delle meraviglie della Apple. Intravedo in bella mostra in una saletta vicino all’ingresso la copertina di “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”. Il titolo è contornato da una mela stilizzata che ricorda quella che occhieggia da iphone e ipod. Il frutto appare però decisamente meno integro. Si tratta, infatti, di una mela della quale è rimasto solo il torso. Menna durante la presentazione fa rilevare sornione che quella che campeggia sul suo libro è certamente un’immagine metaforica. Rappresenta i troppi morsi cui va soggetta una mela, quando si decida di gustarsela in contesti ben diversi da quello californiano di Jobs. E, infatti, nel romanzo, al protagonista Stefano Lavori, l’omologo napoletano di Jobs (lavori è l’esatta traduzione dall’inglese della parola jobs), viene consentito di assaggiare ben poco del frutto della sua pur geniale creatività informatica.
Il giovane, dai tratti un po’ naif, finisce poco alla volta con lo scontrarsi con tutto il campionario di “diseconomie” presenti nella città partenopea, dove vizi e virtù italiche trovano naturale amplificazione. L’ottusità della burocrazia pubblica e privata, la furbizia d’improvvisati consulenti tuttofare, l’oppressione del fisco, la tracotanza della malavita sono altrettante mandibole. Esse finiscono con lo spolpare la virtuale mela di Lavori, che alla fine sembra arrendersi. “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli” è dall’inizio dell’anno nelle librerie virtuali e non, e sta ottenendo un discreto successo sia di critica sia commerciale, tanto che si parla già di realizzarne una pellicola cinematografica. In effetti, il testo ha una struttura con ritmi veloci e molti dialoghi e si presterebbe bene a essere sceneggiato. Il linguaggio utilizzato è anticonvenzionale e velato talvolta d’ironia che spinge al sorriso, talaltra di amarezza che invita alla riflessione. È un libro che si legge tutto d’un fiato senza avvertire il peso delle tematiche impegnative che pure vi sono affrontate: la disoccupazione, l’imprenditorialità giovanile, la difficoltà di operare aderendo ad ideali di onestà lontani da compromessi. Le mele, per divenire “apples”, hanno bisogno delle coordinate giuste. Se la bussola segna il Sud (dell’Italia) invece dell’Ovest (degli “States”) bisogna mettere in conto di rimanere solo con un torso nella mano. Anche se si è “geni”.
Raffaele Basile