Se gli etruschi hanno accento balcanico

Un giorno a Boccheggiano, nelle Colline Metallifere, dove taglialegna slavi fanno risorgere il bosco e popolano le vie degli ex minatori, trasformando il villaggio toscano in un “enclave” multietnica danubiana.

«E oggi undici. Undici novembre», dice la signora al marito, un anziano dal passo cedevole che si aggira per il centro

Veduta di Boccheggiano (GR)

storico in cerca di panchine. Via del Pozzo. Aria limpida, oggi. Si vedono, oltre il terrazzino, le propaggini dell’antica Tuscia tuffarsi nel Tirreno, a graffiarlo da Punta Ala fino all’Argentario, mani protese. Da quassù, seicentocinquanta metri sul livello del mare, si vede pure l’Elba, dietro anche la Corsica. Quassù, a quaranta chilometri da qualsiasi cosa, intorno ci sono solo fianchi frondosi di pendii, detti “metalliferi” per la ricchezza di rame, pirite e argento che custodiscono nel loro ventre. Una ricchezza sfruttata sin dai tempi degli Etruschi, per i quali come pane erano i metalli. In queste valli e sommità di

Rocce nei pressi di Boccheggiano (GR)

monti hanno lasciato numerose tracce.
Boccheggiano è un piccolo centro nelle Colline Metallifere, in provincia di Grosseto. Alle spalle una storia di minatori e cave, e forse anche una certa prosperità al culmine della sua vocazione. «I minatori dell’ultimo ventennio non erano più quelli di una volta. Prima piccone e giù colpi nella roccia, quella sì che era vitaccia. Poi le cave si sono modernizzate», mormora col pane in mano un cliente del forno del paese. Modernizzate, e poi, nell’ultimo ventennio, abbandonate. Oggi non è facile neppure andarle a vedere, visto che il punto informazioni del Parco Archeologico Minerario è serrato, e dalla porta a vetri s’intravede un pavimento liscio cosparso di foglie secche accartocciate.
Dove sono i minatori? «Laggiù, in fondo a quella strada con i cipressi. E non dicono più nulla». Dalla scuola elementare riecheggia un canto di classe elementare. Capita di sentire queste voci qui, perché nel silenzio due soltanto sono i rumori: i bambini e le motoseghe dei taglialegna. In un certo senso due aspetti collegati. I primi sono figli dei secondi. Boccheggiano, un borgo di alta collina, ha perso una vocazione mineraria che viene da molto lontano: lo sguardo, dal paese, grazie a quest’aria di maestrale, spazia oggi fino alla costa tirrenica, e si scorge il sito etrusco di Populonia. Poi la solita storia: niente bambini, emigrazione, fuga dalle campagne, negozi chiusi. E allora di chi sono i bambini?

Boccheggiano - scorcio

«Prima eravamo seicento, adesso non lo so ma ad ogni modo metà degli abitanti sono “di loro”, tagliatori e mogli, e le scuole sono aperte perché ci sono loro», racconta la loquace proprietaria della panetteria. “Loro”, sono una comunità di nomi come Edin, Mufid, Gregor, Elmedin, e di cognomi balcanici come Okic, Salic, Gilas. È dal 1992, da quando hanno avuto inizio le guerre intestine iugoslave, che una fetta di bosco toscano ha iniziato a divenire patria per famiglie macedoni, serbe, albanesi, montenegrine. In fuga dall’est. Esuli di un Paese che non esiste più, ricostruiscono, senza volerlo, la Jugoslavia all’ombra delle Metallifere – quella che una volta era terra di minerali –, riscrivendo “Il taglio del bosco” di Carlo Cassola. E siccome vengono da una zona forestale, tra Doboj e la valle della Sava, con la legna ci sanno fare. A questo punto la storia di Boccheggiano, come quella di altre piccole comunità della “media toscana”, da Grosseto all’entroterra pisano, conosce un capitolo nuovo. Immaginate un puntino nei boschi di seicento abitanti, un centro storico a misura neanche d’uomo, case appiccicate e scale comuni, terrazzini comunicanti, panni stesi sulla finestra altrui. Ecco gli ex minatori, bestemmiano il loro toscano, sono vecchi ormai, camminano piano, e poi insieme nell’ambulatorio in piazzetta «ché un controllino ci vuol sempre, ti sei operato due volte di ernia». E poi il forno, il giornale, l’olio della vicina, il presepio, i rituali della vita quotidiana secolare. Immaginate ora un film di Kusturica, due baffi arricciati e una tuta blu, un passo dondolante balcanico, una giovane dai capelli neri in gonna lunga a fiori e zoccoli, uomini con gli sguardi ruvidi come le mani, con famiglie numerose al seguito da sfamare. In una realtà così piccola, tutto lampeggia davanti palese. La storia del territorio ha regalato un caso di sociologia. Escono dalla foresta tutti insieme, verso le cinque, camminano in silenzio sulle strade, tornano ai villaggi nel tramonto, popolano i bar della briscola.

Boccheggiano - particolare

 «Controllo?», dice con accento slavo e preoccupato  la signora giù in fondo al vicolo. Macché controllo, turisti. E intanto l’anziana autoctona esorta, con premura, la giovane kosovara a sbrigarsi se vuole trovare il medico in ambulatorio, perché se ne sta andando via. Che bella scena. Eppure al forno, poco prima, la lagna sugli extracomunitari boscaioli aveva preso piede abbastanza in fretta. Ma le scuole sono aperte grazie a loro, che portano avanti la nuova tradizione emergente sopra le miniere.
La parrucchiera di Boccheggiano apre solo alcune ore in alcuni giorni, la farmacia un’ora e mezzo tre volte a settimana, idem per le altre scarse attività. Poco, d’accordo, e se non ci fossero neanche i tagliatori balcanici cosa accadrebbe? Il crinale delle colline circostanti pare bucherellato. È la luce che passa tra un albero e l’altro, laddove le motoseghe hanno pulito il bosco, dove cresce e ricresce e le radici affondano la terra minerale.
Non più ragazzi nerboruti del posto si avventurano nel buio di queste lande, né sarebbero disposti a farlo quelli di oggi. La storia recente narra di una Toscana dei borghi metalliferi decaduti, insieme alle loro cave dismesse. Non ne arrivano granché di turisti da queste parti. E allora spazio a nuove genti, culture, popoli, e con loro paesaggi, stili di vita, modi di pensare. È la dimensione del villaggio che amplifica il fenomeno del meltinpot rurale.

Lorenzo Pini

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