Napoli Sotterranea: viaggio nelle viscere della città del sole

La città, nota nel mondo proprio per il Sole, nasconde nel buio del suo ventre parte della sua storia.  Tra resti archeologici e commoventi ricordi del tempo della guerra, Napoli ci regala le sue emozioni più nascoste.

Cisterna a tronco di piramide

L’atmosfera gioiosamente caotica in cui ci si ritrova immersi attraversando le strade di Napoli, l’assordante viavai di automobili, motorini e persone, gli odori, i colori, il ritrovarsi letteralmente immersi in un bagno di folla, sono quanto di più distante si possa immaginare dalle meraviglie che si nascondono nel ventre di questa città.
A circa quaranta metri di profondità, nella roccia tufacea su cui sorge la città, si sviluppa, infatti, una complessa rete di cunicoli e cisterne che raccontano una storia lunga più di duemila anni. Conoscendo bene la vivacità caratteristica di questo luogo visto in superficie, mi è impossibile resistere alla curiosità e decido, quindi, di scendere nella cosiddetta “Napoli Sotterranea”. L’ingresso al sottosuolo della città si trova in un piccolo vicoletto, difficile da notare dalla strada principale; essere passato di qui tante volte senza porvi attenzione e scoprirlo ora mi da quasi un senso di irrealtà, un po’ come per Alice nel seguire il Bianconiglio nella sua tana.

Cava di tufo

Alla prima cisterna sotterranea, a circa trenta metri di profondità, si accede mediante centoventuno scalini, molto bassi e larghi, attraverso una lunga galleria illuminata fino alla fine. La temperatura cambia immediatamente, passando dagli oltre 25 gradi dell’esterno a 16-18 gradi; ma ancor più evidente è la forte umidità che si avverte, che qui sotto arriva a toccare l’80%. Respirare diventa più faticoso, non in modo opprimente, ma certamente più che in superficie. Mentre scendo rifletto sul fatto che sto vivendo ciò che Dante immaginò all’inizio del proprio capolavoro e un brivido mi accompagna per un istante. Giunto nella prima cisterna ne noto subito la forma a tronco di piramide: questa serviva a creare sostegno senza l’ausilio di ulteriori strutture.

Uno degli stretti cunicoli

Furono i Greci i primi ad attingere a questa illimitata fonte di tufo per le costruzioni innalzate in superficie. Sono, infatti, esposti diversi attrezzi usati prima dai Greci ed in seguito dai Romani per estrarre questa pietra. In particolare rimango affascinato dalla strategia di utilizzare perni di legno che una volta fatti penetrare nella roccia e bagnati aumentavano di volume creando crepe nel tufo. Dall’epoca dei Romani fino quasi alla fine del diciannovesimo secolo questi spazi vennero ampliati e riadattati a portare acqua nelle case della città.
Migliaia erano i pozzi che davano accesso alle cisterne dalla superficie. Il “pozzaro” era colui che si occupava della manutenzione dei pozzi e dell’approvvigionamento di  acqua nelle case; a causa dell’elevata umidità queste persone erano costrette a lavorare con il capo coperto da un mantello, abbigliamento che dava loro l’aspetto di monaci. Proprio grazie a queste figure nacque la leggenda tutta partenopea del “monaciello” (piccolo monaco), piccolo spiritello dispettoso che si introduceva nelle case dei ricchi signori facendo sparire piccoli oggetti; oggigiorno, svanita la diffusa tendenza alla superstizione, si è finalmente capito chi erano i colpevoli. Con lo scoppiare delle grandi epidemie di colera, si decise di porre fine all’uso di questi cunicoli come fonte di acqua potabile.

Una brandina appartenuta a qualche rifugiato

Osservare queste opere dell’uomo, nascoste in questo luogo così lontano da ciò che conosco, non tanto fisicamente quanto concettualmente, mi riporta ad un vecchio racconto di H.P. Lovecraft, “Il Tempio”, in cui il capitano di un sottomarino ormai affondato scopre terrorizzato, nelle ultime ore rimastegli, la presenza, lì negli abissi, di opere di una civiltà non umana. Il brivido di poco prima si ripresenta insistente.
Ancora nulla, però, è questo breve spavento dovuto alla mia immaginazione di fronte alla testimonianza che scopro poco dopo di un orrore ben più serio e reale: la guerra. Qui, infatti, durante gli spaventosi anni della Seconda guerra mondiale, i cittadini correvano carichi di terrore per sfuggire ai bombardamenti che devastavano la città in superficie. Molti dei pozzi vennero chiusi  mediante la costruzione di grossi pilastri, per evitare che le bombe penetrassero fino a quest’ultimo freddo e umido luogo di speranza, mentre altri rimasero aperti perché l’ossigeno potesse fluire. Ammetto di essermi un po’ commosso nel sapere che le brandine esposte in ricordo di quei terribili momenti sono proprio quelle originali usate dai rifugiati. Tra gli altri cimeli anche alcuni elmetti dei nostri soldati, abbandonati qui da coloro che decisero di rifuggire l’assurdità degli scontri per scegliere la vita.

Finestra di una casa che sporge nei resti del teatro

Proseguo nella mia esplorazione, costretto a procedere di lato per l’esiguità dello spazio tra le pareti di alcuni cunicoli, con solo una candela ad illuminare il percorso. Rianimato da un nuovo spirito d’avventura ora mi sento più vicino al prof. Lidenbrock, nella sua ostinata ricerca del centro esatto del nostro pianeta immaginata da Verne. Il terreno su cui mi muovo è di origine vulcanica e venne portato qui per ricoprire le montagne di rifiuti accumulatesi negli anni successivi alla guerra. In questo periodo, infatti, i pozzi rimasti aperti venivano usati dai cittadini quale discarica; la pavimentazione originale si trova, quindi, a circa cinque metri al di sotto di questo terreno compattato. Giungo infine in superficie, dove mi trattengo ancora un po’ per osservare i resti di un antico teatro romano, “inglobato” negli edifici della città. Qui, infatti, le abitazioni sono state edificate intorno e dentro il teatro, ormai irriconoscibile come struttura a sé e parte integrante del paesaggio cittadino che, come le ife di un fungo che cresce in un tessuto, ha innervato le proprie ife di pietra e cemento nel tessuto della storia.

Davide Lepore

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