La musica del mare: tinte mediterranee nelle note di Fabrizio De Andrè

In anticipo di due anni su Graceland di Paul Simon, Crêuza de mä, dodicesimo album di Fabrizio De Andrè, è ormai considerato un must per gli appassionati di world music; oggi ci appare anche come un’opera che supera la specificità di un genere musicale tanto da potersi considerare una vera e propria antologia poetica.

A seguito della tragica alluvione che ha colpito Genova lo scorso 4 novembre, un piccolo omaggio che si potrebbe rendere a questa grande città è quello di ripercorrere la sua storia nella poesia e nella musica. In questo percorso ideale, una tappa particolarmente importante è rappresentata da Crêuza de mä, uscito nel 1984, che viene considerato uno degli album modello della world music. Crêuza de mä è il risultato del felice connubio artistico di De Andrè e Mauro Pagani, artista raffinato e versatile. Sappiamo anche che De Andrè si occupò in particolare della stesura dei testi e Pagani dell’elaborazione musicale. È bene ricordare che l’ascolto di Crêuza de mä, album colto ma non ermetico, presenta alcune indubbie difficoltà di comprensione per il fatto che le canzoni sono tutte scritte in genovese antico, una lingua poetica appunto, che accoglie numerosissime parole di origine araba, greca e provenzale, e che risulta di non immediata decifrazione per gli stessi genovesi. Pur nelle difficoltà di comprensione, è facile lasciarsi coinvolgere dalla sua fascinazione fonica. L’album si apre con la canzone che dà il titolo all’album, Crêuza de mä: il suono della gauda introduce la voce del cantante; alla melodia di questo strumento si aggiunge il suono limpido del bouzouki greco che intramezza le strofe legandole l’una all’altra.

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Il titolo letteralmente significa “mulattiera di mare”, una sorta di trazzera che dal mare sale alla montagna, ma che può essere interpretata come una strada che si disegna nel mare, teatro di storie epiche che quest’ultimo custodisce. Jamín-a, la seconda traccia del disco, rappresenta una visione dell’immaginario marinaresco: dietro l’illusione di una “stella nera che brilla” come la definisce l’autore, si cela la speranza, viva in ogni marinaio, di scoprire, una volta superate le insidie del mare, una donna di carne verace, sollievo peregrino delle sue paturnie sensuali. La terza traccia impreziosisce l’opera di un commosso riferimento alla questione mediorientale. Nel 1982, l’esercito israeliano guidato da Ariel Sharon invade il Libano; nella canzone il dramma di quei giorni è filtrato nell’immagine di un bambino ucciso sotto gli occhi del padre: in questo modo De Andrè dà voce alla sofferenza di un intero popolo, trasportandola dalla tragica attualità della storia in uno spazio di inviolabile atemporalità poetica. L’opera si arricchisce invece di riferimenti colti con Sinàn Capudàn Pascià, ispirata a Scipione Cicala, un personaggio la cui vita si presta particolarmente ad essere un soggetto poetico. Il disco si compone anche di canzoni che si richiamano più apertamente ai temi prediletti di De Andrè come ‘Â pittima. Di notevole interesse anche il pezzo intitolato “Â duménega”. L’album si chiude con “D’ä mê riva”, canzone di congedo, in cui la nostalgia del marinaio si rende visibile e quasi tangibile negli oggetti che l’uomo porta con sé e che lo legano alla sua donna, per poter scrivere di magiche lontananze. L’album quindi non si presta ad un ascolto “leggero”, ma richiede attenzione e concentrazione. Tuttavia, se ci si lascia andare al ritmo di Crêuza de mä, sembrerà come ricrearsi nella mente un’atmosfera come sospesa nel sogno, dove albe d’oro baluginano nel mare, che con l’intimo suo respiro ci trascina impalpabilmente nell’incanto ammaliante di una sinfonia mediterranea.

Marco Cesareo

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