
Segni di cultura di Siria: sarà la fine di una tradizione indelebile?
L’arte del tatuaggio, insieme di segni e rituale della cultura di Siria, è una tradizione che, contro ogni aspettativa, si avvia alla sua conclusione. Scopriamone i significati attraverso le parole e le immagini presentate dall’archeologo e antropologo Alberto Savioli al Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena. (Foto: © Alberto Savioli)
È iniziato dalla Terra – le aride vallate siriane, tra tempeste di sabbia e dromedari al pascolo in inverno – il viaggio alla scoperta di un’affascinante parte della cultura di Siria, nel quale l’antropologo e archeologo Alberto Savioli ha accompagnato il suo pubblico del Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena sabato 21 aprile. Ne ha raccontato i dettagli l’incontro, che ha preceduto la mostra, che ha permesso di conoscere alcuni aspetti della cultura beduina e del lungo lavoro di mappatura operato. Si è concluso di fronte al muto linguaggio delle emozioni, immortalate nel tempo ed esposte alla mostra fotografica “I beduini e l’arte del tatuaggio in Siria”, accompagnata da una sensazione di velato dispiacere per quell’annunciata perdita: l’abbandono della pratica del rito del tatuaggio quale segno di bellezza indelebile.
Strumento di miglioramento della propria immagine, al pari del trucco permanente, il tatuaggio era considerato desiderabile per le giovani in età puberale e, se praticato in occasione delle nozze, un ornamento che accresceva l’attrattiva sessuale ma anche il rito di uscita dalla condizione di nubilato. L’arte del tatuarsi è stata parte integrante della cultura in Siria: quella delle diverse tribù di beduini che hanno saputo vivere in una nicchia ecologica estrema sfuggendo all’aridità che regola i loro mobili confini.
Grazie a queste pazienti ricerca e analisi, oggi possiamo ammirare un’arte di tradizione millenaria immortalata nelle fotografie: impressioni che proteggeranno la ricorrente eterogeneità dei simboli – disegnati sulla pelle attraverso aghi battuti a ritmo veloce dalle daqqaqa, le tatuatrici – anche nel futuro.
Soprattutto donne – meno diffusa la pratica tra gli uomini – segnate dallo scorrere del tempo che, dopo la necessaria confidenza, hanno accettato di mostrare i loro segni sul corpo, pur non conoscendone talvolta l’esatto significato. Spesso legati alla Terra, i loro tatuaggi riprendono le incisioni rupestri distribuite in Arabia del Nord, gli oggetti di uso quotidiano e spesso possiedono anche valore di protezione e rafforzamento delle stesse porzioni corporee che vanno a decorare.
Circa duecentocinquanta i segni raccolti nella mappatura. Blu e verde sono le tonalità preferite, il cui pigmento «veniva ottenuto dalle parti bruciate delle pentole e degli utensili di cucina, dagli avanzi del focolare in cui si era bruciato legno, oppure carbonizzando erbe, stoffe o altre sostanze (…), che venivano mescolate con polvere da sparo, kerosene ma anche latte umano, (…) oppure con una pasta ottenuta polverizzando una foglia fresca di rapa bianca (…) o aggiungendo indaco alla tintura usata nell’operazione» – scrive e racconta Savioli. Tra i tanti motivi decorativi, l’elemento della gazzella, unico animale rappresentato nei tatuaggi del volto, che significa bellezza e che ritroviamo anche nel detto beduino secondo cui «una ragazza bella ha il collo di gazzella». Il pettine, che districa i nodi e le linee raggiate, simili a forbici che, così come il triangolo, respingono il male, possedendo valenza apotropaica di difesa dal malocchio; le spighe di grano ai lati della bocca e il crescente di luna, il più comune motivo tatuato sulla fronte.
Ragazza della tribù dei Duleim, tatuata con il motivo decorativo apotropaico con finalità protettiva detto siyala cioè “la fluida”.L’apparente non-senso di questa perdita, già in corso, è legato allo stesso concetto di bellezza che muta nel tempo. «Oggi questa pratica millenaria ha perso la sua valenza, il tatuaggio non viene più considerato una forma di abbellimento e per questo non viene più fatto», scrive l’esperto.
Le giovani beduine siriane non si tatuano più, o quasi, e così – come fu per le nostre nonne che non imposero la gonna al ginocchio alle nipoti quando il tempo ne aveva già ristretto (anche di molto) la lunghezza – le vediamo posare accanto alle parenti più anziane, sorridenti nei loro visi e mani riccamente decorati.
Pensare che la gravità del danno di una simile perdita, che si stima definitiva in circa vent’anni, sia stata preventivamente evitata da questo lavoro di ricostruzione che ne proteggerà il valore nella memoria, fa lasciare la mostra apprezzandone ancora di più il valore inestimabile. Queste immagini, presenti e passati reali che ci guardano e ci osserveranno, forniranno all’Umanità la presenza, sicura e indelebile, di quei segni per sempre.
Beatrice Sartini