
Agenzie di rating: è il mercato a decretarne il fallimento
Col passare del tempo, le agenzie di rating si sono ritagliate un importante ruolo nel settore finanziario, indirizzando di volta in volta le decisioni degli investitori. Analizzando l’ultimo decennio, tuttavia, emerge un quadro di fallimenti catastrofici. Ha ancora senso affidarsi a loro? (Foto: Flickr cc alatryste)
Se pensiamo ai grandi crack, quelli che hanno ridotto sul lastrico investitori di ogni genere, dal piccolo risparmiatore al grande fondo di investimento, noteremo un unico filo conduttore, una sigla tanto semplice quanto influente: AAA o tripla A. È la sigla con la quale le grandi agenzie di rating indicano i titoli più sicuri, quelli praticamente inaffondabili. Eppure di fallimenti negli ultimi anni ne abbiamo visti parecchi, tanto che l’inconsueto cigno nero è diventato banale quanto un comune piccione. Da Enron a Parmalat, da Cirio a Lehman Brothers, le agenzie hanno mostrato tutti i propri limiti, modificando opinioni e rating quando, ormai, era troppo tardi.
Ma come funzionano le agenzie di rating? Innanzitutto, sono le società stesse a fare richiesta di rating. In poche parole, l’analisi svolta dall’agenzia sulla solidità finanziaria delle società – e dunque sui potenziali rischi derivanti da un investimento nelle loro attività – è pagata dagli stessi soggetti che si sottopongono all’analisi. Dal rating dipendono, tanto per le imprese quanto per gli stati, i costi dei finanziamenti ottenuti, rappresentati dai tassi di interesse pagati sulle somme ricevute in prestito. Di conseguenza, le aziende hanno un interesse ben specifico nell’ottenere il rating migliore possibile, con tutto ciò che questo può comportare. Si va dalle semplici pressioni esercitate con la minaccia di privare l’agenzia dell’incarico, allo sfruttamento di rapporti privilegiati con i vertici direzionali, a possibili accordi sottobanco. Il cosiddetto parere qualificato delle agenzie diventa, in questo senso, parere interessato.
Inoltre, gli stessi soggetti che forniscono l’analisi sono spesso associati o consulenti – più o meno diretti – di grandi investitori professionali, caratteristica che palesemente determina una posizione di forte conflitto di interesse. L’agenzia di rating, in definitiva, smette di essere così un soggetto utile al mercato e ne diventa strumento distorsivo. E tale teoria sembra essere ampiamente condivisa nel nostro Paese, tanto da portare all’apertura di numerosi procedimenti di verifica con l’ipotesi di turbativa di mercato.
Ciò che più dovrebbe far riflettere sull’attuale sistema di rating, è che a farne le spese non sono solo i piccoli investitori, impossibilitati a proteggere adeguatamente i propri investimenti a causa delle limitate disponibilità economiche, ma anche le imprese stesse. È il tipico circolo vizioso. Da un lato le imprese desiderano rating positivi, quindi mettono in moto il meccanismo, dall’altro sono esse stesse vittime di un sistema di valutazione distorto da cui non possono – o non vogliono – affrancarsi.
Ma l’inaffidabilità dei giudizi e la mancanza di trasparenza nelle procedure di rating stanno generando una sempre maggiore diffidenza, tanto che nelle ultime settimane i pareri negativi sui Paesi dell’area euro espressi dalle maggiori agenzie sono stati ampiamente ignorati. Che sia l’inizio di una nuova fase per la finanza mondiale?
Alessandro Turco